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Alex Zanotelli: contro la guerra e il riarmo, boicottare le banche armate

Scritto da: LAURA TUSSI

Alex Zanotelli interviene con decisione sul tema delle banche armate per sostenere la campagna di sensibilizzazione sugli investimenti non etici degli istituti finanziari e per difendere la legge 185 dagli attacchi del ministro Crosetto e della lobby delle armi. La sua esortazione contiene due inviti fondamentali, uno alla consapevolezza e all’informazione e un altro alla disobbedienza civile.

Pochi giorni fa si è tenuto un incontro organizzato dall’AIAD – la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa – alla presenza del ministro Crosetto, che si è detto favorevole a modificare la legge 185 perché sta bloccando troppo la vendita di armi. Le reazioni a questo attacco non si sono fatte attendere e uno dei primi a intervenire è stato Alex Zanotelli: «Non ho mai visto un Governo italiano così prigioniero del complesso militare industriale di questo Paese e questo è gravissimo», ci ha detto. 

Un altro aspetto preoccupante che emerge dalle dichiarazioni di Crosetto riguarda il rapporto fra guerra e finanza.

Il ministro si è detto molto preoccupato per le banche etiche perché – a detta sua – diventa sempre più difficile trovare soldi dalle banche che si sentono accusate di non essere etiche. Per questo ha dichiarato di voler fondare una nuova banca che investa soltanto nel militare. Per questo penso che diventi fondamentale in questo momento proprio l’invito a tutti a evitare e soprattutto boicottare le banche armate. Con la guerra in Ucraina verranno prodotte molte armi ed essa andrà avanti perché è importante produrre armamenti e poi smaltirli subito. È il solito modo di procedere.

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Alex Zanotelli
Cosa ti preoccupa di più di questa situazione?

Quello che mi preoccupa di più non è tanto la reazione della società civile, che purtroppo non è molto cosciente, quanto quella delle comunità cristiane. Il livello dovrebbe essere molto chiaro: non possono lasciare i loro soldi in mano alle banche che investono nella produzione di armi. Quel povero Gesù di Nazareth era il profeta della nonviolenza. Il grande teologo Enrico Chiavacci al Concilio Vaticano Secondo ha detto una cosa molto chiara: un cristiano è obbligato a sapere dove tiene i propri soldi, in quali banche e come quella banca usa quei soldi. 

Quello che mi sconcerta di più è quindi il silenzio da parte delle comunità cristiane, delle parrocchie, delle diocesi, dei vescovi. Non riesco a capirlo. Ormai noi cristiani siamo talmente conformati al sistema economico-finanziario militarizzato che accettiamo come una cosa normale che i nostri soldi vengano investiti in tutta questa infernale produzione. Penso che sia importante un appello alle comunità e a tutti i cittadini perché davvero adesso devono compiere una scelta sostanziale. Non vogliamo la guerra, siamo per la pace, ma se poi i soldi li depositiamo in una banca che investe in armi e ordigni militari la coerenza viene meno. È necessario aiutare la gente a capire questo, ma non è facile. 

Come valuti oggi il mercato degli armamenti in Italia?

L’anno scorso abbiamo investito per 32 miliardi di euro in armi. È pazzia collettiva. Sono tutti soldi che vengono tolti alla scuola, alla sanità pubblica e ad altri settori vitali. La campagna di boicottaggio delle banche armate dovrebbe motivare la gente, far capire che i suoi soldi non possono essere usati per costruire armamenti che ci stanno conducendo inesorabilmente a un disastro planetario. E dall’altra parte ricordiamoci quanto pesano sull’ecosistema queste guerre, che provocano un altissimo tasso di inquinamento e qui siamo davanti all’estate incandescente. 

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Il ministro Crosetto
Vendere armi nelle zone calde, nelle aree di conflitto armato è vietato dalla legge 185/1990, come anche dalla nostra Costituzione. L’export di armamenti è veicolato verso i paesi impegnati nella guerra contro lo Yemen, verso i paesi come l’Egitto di al Sisi e la Turchia di Erdogan. Puoi argomentare queste considerazioni?

Il problema è drammatico. Il Ministro della Difesa Crosetto è molto preoccupato della 185 perché ostacola la vendita d’armi, che lui al contrario vorrebbe accelerare. È una legge nata in seguito a una lunga battaglia di cui ho fatto parte con la rivista Nigrizia. Poi mi hanno “defenestrato” e sono andato in Africa, ma quel movimento, che includeva tantissime organizzazioni, ha portato alla legge 185, che è unica in Europa. È un piccolo strumento per prevenire un sacco di disastri ed è fondamentale difenderlo ostinatamente, anche a costo di pagare di persona. 

I caricatori del porto di Genova, i Calp –ma anche quelli di altri porti –, si sono rifiutati di caricare le armi sulle navi destinate all’ Arabia Saudita per la guerra contro lo Yemen. I portuali stanno pagando di persona, sono incriminati e rischiano di essere processati. Ma oggi diventa fondamentale la disobbedienza civile. Giorni fa ho partecipato a un incontro sul caporalato in Campania e il vescovo emerito di Caserta, Monsignor Nogaro, ha detto proprio queste parole: «È arrivato il tempo di gridare che è necessaria la disobbedienza civile. Siamo arrivati a questo punto. Dobbiamo davvero disobbedire». 

Questo però vuol dire pagare nella propria vita e so che questo non è facile. Eppure il cittadino che capisce quanto è folle questo sistema drammatico deve avere il coraggio. Questo per le armi ma non solo: ho sempre appoggiato tutte le manifestazioni di Ultima Generazione, fanno bene a fare quello che fanno perché oggi stiamo andando verso il disastro ecologico.

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L’idea di base della campagna di pressione sulle banche armate è valida perché tende a bloccare questo sistema di commercio di armamenti. Con quali modalità?

Le modalità di questa campagna di boicottaggio delle banche armate è molto semplice. È necessario comprendere il problema e reagire. Basta semplicemente ritirare i propri soldi dalla banca che investe in armi e vedere di trovare una banca etica, ossia un’altra banca che non investa in armi. È fondamentale questa azione. Tutto questo non è facile perché è chiaro che gli interessi sono tanti perché certe banche – come le tre banche principali in Italia: Unicredit, Intesa Sanpaolo e Deutsche Bank – danno alti dividendi, che sono molto più vantaggiosi, e quindi ognuno anche qui ci perde a livello personale. Ma dobbiamo cominciare a capire che non si può continuare così.

Penso che il successo dipenda da due fattori fondamentali. Finora abbiamo lanciato questa campagna con Pax Christi e le tre riviste NigriziaMissione Oggi e Mosaico di pace, ma non basta. Stiamo premendo affinché la chiesa italiana faccia un passo in avanti. Ma allo stesso tempo ci vorrebbe anche da parte della società civile la capacità di rilanciare con forza tutta questa azione, perché molta gente non sa nulla di queste cose. 

Il secondo fattore è la disobbedienza civile dei tanti che lavorano in fabbriche d’armi: che si rifiutino di continuare a fare il proprio lavoro. Ho scritto recentemente – in occasione del funerale di Berlusconi – che l’amoralità, cioè la non-moralità, è diventata l’etica del popolo italiano. Questo è il problema: non ci sono più valori né ideali e questo richiede un intervento soprattutto da parte della rete della Chiesa, che deve ricominciare a formare una coscienza di valori. 

La campagna di boicottaggio delle banche armate dovrebbe motivare la gente, far capire che i suoi soldi non possono essere usati per costruire armamenti


Il valore delle operazioni segnalate dalle banche italiane relative al commercio di armi sfora i 9 miliardi e mezzo di euro. Le riviste missionarie Nigrizia, Mosaico di pace e Missione oggi come denunciano il fatto che gli istituti di credito si sono messi al servizio delle aziende belliche?

In generale le tre riviste sono molto chiare sulla denuncia di tutto questo ed è fondamentale che continuino in questa loro denuncia, che però da sola non è sufficiente. Sono tre voci che non hanno gran peso nella società italiana. Bisognerebbe che qualche televisione o qualche grosso giornale iniziasse una campagna sul tema, ma chiaramente il problema è che sono tutti parte del sistema: basta vedere un giornale e chi lo paga, da dove riceve fondi. Penso che anche questa sia una vera e propria missione. Sono un missionario e a volte sembra sempre di parlare al deserto, ma è importante continuare a declamare la nostra posizione. 

Non smetterà mai di invitare tutti a riflettere su come i nostri soldi vengono usati. Vale per le banche armate, ma vale anche per chi investe in fossili. Sono due facce della stessa medaglia, perché sono le due realtà che ci stanno portando alla possibilità che la presenza umana sul pianeta venga meno. 

Anche il PNRR sarà sempre più proiettato all’investimento e produzione di armi?

Il PNRR dovrebbe servire alla società civile, soprattutto servire a portare avanti la scuola e la sanità, ma se i fondi vanno a finire in armi e non rimangono che le briciole per tutto il resto. Questa è una cosa gravissima.

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RWM in Sardegna: l’industria bellica sull’isola, fra irregolarità e “colonizzazione industriale”

Scritto da: LAURA TUSSI

Da molti anni è in atto una sorta di colonizzazione da parte di RWM Italia, importante azienda del settore bellico. La Sardegna e i suoi abitanti sono divisi: da un lato chi contesta l’operato di RWM dal punto di vista etico e sottolinea il forte impatto negativo che l’azienda ha sul territorio sotto il profilo ambientale e quello sociale; dall’altro chi ritiene che la multinazionale crei opportunità di lavoro e ricchezza. Ma è davvero così?

Sud SardegnaSardegna – Lo scorso 13 luglio il Parlamento Europeo in seduta plenaria ha approvato il regolamento sull’ASAP Act in support of ammunition production, ovvero l’atto per sostenere l’aumento della produzione di munizioni in Europa. Una norma che, oltre a finanziare con 500 milioni di euro – consentendo agli Stati di attingere anche ai fondi del PNRR – la produzione di armi e munizioni, prevede una serie di agevolazioni e deroghe alle autorizzazioni da concedere alle industrie belliche per accelerare la produzione di munizioni made in Europe.  Infatti l’acronimo inglese di ASAP significa “As Soos As Possible”, il più presto possibile.

«Questa è una norma da tempo di guerra che coinvolge sempre più l’Europa nel conflitto Russo-Ucraino», sottolinea con una nota di preoccupazione Graziano Bullegas, segretario di Italia Nostra Sardegna, che segue da vicino le vicende di RWM Italia, controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall che produce armi ed esplosivi nella provincia del Sud Sardegna. «Questa fabbrica – aggiunge Bullegas – potrebbe quindi trarre grandi vantaggi da questa norma per incrementare la produzione di munizioni da inviare in Ucraina, per ripristinare gli arsenali di tutta Europa e riprendere le esportazioni di munizioni verso i paesi del Golfo che erano state bloccate dal governo Conte nel 2019, blocco revocato lo scorso maggio dal governo Meloni».

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Si tratta di nuove facilitazioni per i produttori di armi?

In Sardegna non si è dovuta attendere quella norma per facilitare l’insediamento di industrie che producono ordigni bellici. È bastata una politica industriale devastante sotto l’aspetto ambientale, sanitario, sociale e ovviamente economico, per trasformare il florido territorio del Sulcis-Iglesiente in una delle province più povere d’Europa e per creare il terreno fertile per accogliere qualsiasi attività, anche le più nocive e quelle più improponibili dal punto di vista etico.  

In questo clima nasce e prospera lo stabilimento acquisito dalla RWM Italia spa, controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall, per la produzione di ordigni bellici: bombe per aerei da combattimento e proiettili per cannoni semoventi e per carri armati. L’azienda si inserisce nel tessuto economico, sociale e politico del piccolo centro di Domusnovas – regalie, doni, ristori economici, posti di lavoro e per qualche anno anche il finanziamento della festa patronale di Santa Maria Assunta.

Gli utili dell’azienda vanno alle stelle grazie alla vendita di armi di categoria MK80 – cioè bombe d’aereo e missili – all’Arabia Saudita, che poi le utilizzerà nella guerra in Yemen. Nel 2015 schegge di bombe MK80 sono state ritrovate nelle rovine di alcune città Yemenite bombardate e il loro numero di serie – A4447 – corrisponde allo stabilimento Domusnovas.

Durante il governo Renzi la società è stata autorizzata dall’AUMA a vendere diverse decine di migliaia di bombe per aereo, per un valore totale di oltre 400 milioni di euro. È stata definita dagli esperti la più grossa autorizzazione per l’esportazione di bombe mai rilasciata negli ultimi trent’anni. Per far fronte alle nuove commesse la RWM decide di espandersi e realizza un nuovo stabilimento adiacente a quello esistente.

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Considerata l’urgenza di produrre armi, l’espansione dello stabilimento ha seguito un iter autorizzativo semplificato e di dubbia legittimità. Anziché presentare un progetto industriale di espansione, ha deciso di aggirare l’ostacolo, grazie anche alla compiacenza dei vari livelli della pubblica amministrazione e ha presentato una miriade di richieste di autorizzazione edilizia indipendenti, sperando cosí di bypassare procedura di valutazione di impatto ambientale, nulla osta paesaggistici dell’intero intervento urbanistico industriale e autorizzazioni ambientali.

Con una serie di artifizi l’azienda è comunque riuscita a ottenere tutte le autorizzazioni senza dover   assoggettare l’impianto a procedura di VIA e di VINCA – nonostante sia ubicato a poche centinaia di metri da un Sito di Importanza Comunitaria (SIC) – e senza presentare alcun piano di intervento industriale e utilizzo delle terre di risulta movimentate.

Ci sono state reazioni di dissenso da parte della comunità locale?

L’arrivo dell’industria bellica ha comportato anche una serie di conseguenze negative. Dal punto di vista sociale, ha alimentato tensioni e divisioni nell’area vasta dell’Iglesiente. Molti cittadini hanno espresso perplessità sulla presenza di un’azienda che produce armi, in quanto il loro utilizzo alimenta conflitti e guerre in tutto il mondo.

Anche sotto l’aspetto economico, pur avendo portato alcuni benefici economici alla comunità di Domusnovas, come posti di lavoro e investimenti, ha inibito la nascita di attività più sostenibili nell’area e la stessa occupazione spesso sbandierata a sproposito è composta per buona parte da lavoratori somministrati, in quanto l’industria militare è spesso soggetta a fluttuazioni del mercato ed è influenzata da politiche esterne e cambiamenti nel settore della difesa. Ciò ha portato al licenziamento di numerose maestranze lasciando la comunità ancora più impoverita di prima.

Già dopo il 2015, a seguito della scoperta della scheggia di bomba che aveva distrutto una famiglia in Yemen, diversi cittadini hanno deciso di impegnarsi in prima persona riunendosi nel Comitato Riconversione RWM. Attorno e a sostegno del Comitato ritroviamo ambientalisti, antimilitaristi, parte della chiesa, sindacati di base ed etnici, associazioni culturali e del terzo settore.

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Si sono create così le prime contraddizioni e le prime fratture dentro una comunità che appariva coesa nella ricerca di opportunità di sopravvivenza e che ragionava più con la pancia che col cervello. Da una parte la comunità di Domusnovas compatta a difesa della RWM, sostenuta da molti politici locali e regionali, dall’altra numerosi cittadini-militanti. I favorevoli sostengono che il lavoro viene prima di tutto e che se queste armi non si costruiscono in quello stabilimento le costruiranno comunque da altre parti; i contrari sollevano questioni etiche e morali e parlano di riconversione e di rispetto della legalità.

Quali sono state le azioni di contrasto all’attività della fabbrica? 

Oltre agli incontri, i sit-in, le manifestazioni di fronte allo stabilimento, l’attività di sensibilizzazione, la creazione di una rete di aziende che aderiscono alla rete WarFree – Lìberu dae sa Gherra, si è condotta una intensa azione giudiziaria coinvolgendo la magistratura penale e quella amministrativa. Nello stesso tempo si è attivato un pressing verso il governo perché l’Italia rispetti l’art. 11 della costituzione e i trattati internazionali contro la proliferazione delle armi. 

Contrasto e proposta quindi. Quali sono gli obbiettivi di WarFree? 

La rete Warfree nasce con l’intento di promuovere una nuova economia – civile, sostenibile e libera dalla guerra – in Italia e nel mondo, a partire dalla Sardegna, e per mettere a valore le numerose opportunità che offre il suo territorio e presentarlo come un luogo da cui nasce una proposta di pace.

Nello stesso tempo si propone di offrire alla comunità e ai decisori politici un segno di economia positiva per testimoniare le strade alternative all’industria delle armi e alla colonizzazione dei territori. Dimostrare che è possibile vivere praticando un lavoro degno, offrendo occasioni di crescita e strumenti di promozione alle imprese e ai professionisti che aderiscono alla rete.

Le iniziative sul fronte giudiziario? 

Alcune delle autorizzazioni ottenute per l’ampliamento dello stabilimento sono state impugnate davanti al TAR da numerose associazioni, comitati e sindacati di base. Dopo una lunga istruttoria e dopo aver sentito il parere di un consulente tecnico, il TAR Sardegna ha respinto il ricorso accogliendo le ragioni dell’azienda, della regione sarda e del Comune di Iglesias.

Giudizio appellato da Italia Nostra, USB e Assotziu Consumadoris de Sardinia davanti al Consiglio di Stato, che ha ribaltato a novembre 2021 la sentenza del TAR e accolto le motivazioni del ricorso annullando le autorizzazioni edilizie rilasciate dal Comune. Abbiamo anche presentato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica di cui non conosciamo l’esito, anche perché il Comune di Iglesias lo ha tenuto nascosto in un cassetto per anni, anziché presentarlo al competente ministero.

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Grazie alla documentazione raccolta nel corso del giudizio amministrativo, abbiamo notato numerose incongruenze, informazioni non veritiere, autorizzazioni rilasciate dopo l’avvio dei lavori, edifici costruiti in aree a rischio esondazione e altri elementi che abbiamo allegato a numerosi esposti trasmessi alla procura di Cagliari. Quelli esposti hanno consentito alla procura di avviare delle indagini che hanno portato a processo alcuni dirigenti e tecnici della RWM Italia e alcuni funzionari dei Comuni di Domusnovas e di Iglesias. Il processo è tutt’ora in corso.  

Quali sono stati gli effetti della sentenza a voi favorevole? 

La sentenza del CdS è importante perché riconosce la produzione di esplosivi all’interno di RWM e ritiene che l’intero stabilimento, anche quello attualmente in produzione, debba essere assoggettato a Valutazione di Impatto Ambientale. Il primo effetto della sentenza è stato quello di fermare l’attività nella parte dell’ampliamento che era già in esercizio – il campo prove dove vengono testati gli esplosivi prodotti – e non avviare la produzione nel resto dello stabilimento ampliato, nonostante i lavori fossero dichiarati ultimati il giorno successivo al deposito della sentenza.

Come ha reagito l’azienda al ribaltamento del giudizio?

L’azienda ha presentato una richiesta di revocazione della sentenza in quanto il giudice avrebbe commesso un errore nella sua compilazione, richiesta non accolta dal CdS. Ha quindi presentato una richiesta di VIA ex-post, una procedura prevista dalla legge, ma che nel caso in esame appare una richiesta di sanatoria dei reparti realizzati abusivamente.

L’emancipazione della Sardegna da un rapporto coloniale con le aziende inquinanti è sicuramente la strada migliore per garantire un futuro sostenibile

Sarebbe quindi possibile sanare le opere realizzate abusivamente?

Noi siamo del parere che gli impianti sono da considerarsi abusivi perché privi di una autorizzazione legittima e dovrebbero essere demoliti. Questa è anche richiesta avanzata dai legali delle associazioni al Comune di Iglesias. Considerata la procedura di VIA ex-post in corso, abbiamo ripetutamente chiesto alla Regione di rigettare la richiesta perché non conforme a quanto stabilito dalla sentenza del CdS e nel contempo stiamo partecipando alla procedura di VIA in corso per spiegare al servizio valutazione impatti, attraverso le nostre osservazioni, le motivazioni per cui quella richiesta non può essere accolta.

Come sono giustificati dall’azienda gli abusi edilizi?

RWM continua a ripetere fino alla nausea che l’ampliamento dello stabilimento è stato regolarmente autorizzato e che pertanto quelli che oggi sono alla sbarra non dovrebbero essere processati perché è tutto in regola. Tutto questo fa parte di una narrazione non veritiera e smentita dalle sentenze dei tribunali amministrativi, ma che risulta utile all’azienda per apparire una vittima della burocrazia e per accreditarsi nel territorio come la dispensatrice di benessere e occupazione e allo stesso tempo sperare di trarre profitto dalle nuove normative europee in materia di produzione di munizioni.

Esiste un futuro per RWM Italia in Sardegna?

Fino a oggi RWM ha operato in Sardegna con l’approccio tipico degli insediamenti industriali avviati nei paesi poveri da parte delle grosse multinazionali occidentali: agevolazioni burocratiche e iter autorizzativi privilegiati, una eccessiva permissività verso l’azienda che avrebbe portato il benessere, una palese ostilità verso chi chiede di sapere e una evidente insofferenza verso le norme sulla trasparenza e la partecipazione dei cittadini.

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Infatti l’applicazione delle norme italiane e sarde e delle direttive europee non è stata del tutto conforme; basti pensare al mancato rispetto del Piano Paesaggistico Regionale, del codice dell’Ambiente  e delle numerose norme urbanistiche che regolamentano gli insediamenti industriali. Nel merito del mancato rispetto delle direttive europee è entrato il Consiglio di Stato, ricordando in particolare la Direttiva del 1985 concernente la valutazione dell’impatto ambientale e l’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (UE) sul Principio di Precauzione.

L’emancipazione della Sardegna da un rapporto coloniale con le aziende inquinanti è sicuramente la strada migliore per garantire un futuro sostenibile. Questo implica liberarsi non solo dalle fabbriche di armi, ma anche da tutte le produzioni dannose per l’ambiente e la salute. Dobbiamo tornare a valorizzare le attività primarie che hanno sostenuto la vita sull’isola fino alla metà del secolo scorso, prima dell’espansione dell’industria. Queste attività, se adeguatamente supportate, possono garantire un futuro sostenibile per la Sardegna.

Dobbiamo aderire al messaggio di papa Francesco contro il “commercio assassino” e promuovere un’economia nuova che rispetti il lavoro dignitoso e il creato. Le associazioni ambientaliste devono promuovere attivamente tutte le attività ecologicamente sostenibili, contrastando allo stesso tempo quelle che danneggiano l’ambiente e la salute. In questo modo, la Sardegna può diventare un esempio di sviluppo sostenibile, basato sulla valorizzazione delle risorse naturali e sull’economia verde. Questo non solo proteggerà l’isola e la sua popolazione, ma contribuirà anche alla lotta globale contro il cambiamento climatico e la distruzione dell’ambiente.

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Armageddon nucleare? non lo vogliamo. La pace siamo noi

di Laura Tussi

Dal nucleare civile al nucleare militare: il ‘gioco’ è fatto.

È un momento grave per la storia dell’umanità: viviamo all’ombra di circa 25.000 ordigni di distruzione di massa nucleari che possono annientare il pianeta per molte volte.

Questa situazione è resa oggi ancora più delicata dalla corsa verso il nucleare civile, che è ritenuto da molti una buona alternativa all’uso del carbone e dei fossili, principali responsabili dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici.

Ma siamo sicuri che il nucleare civile sia un’alternativa valida per i costi e per la sicurezza? I costi sono altissimi e si calcola che negli Stati Uniti il nucleare civile in questi quattro decenni sia costato parecchi miliardi di dollari.

E la possibilità degli incidenti è alta.

Ad esempio l’incidente in Giappone a Fukushima. Ma pensiamo anche al disastro di Chernobyl.

Attualmente sappiamo che il 90 per cento delle 800mila persone addette al risanamento di Chernobyl hanno contratto tumori.

Ma il problema più rilevante è che l’industria nucleare non sa cosa fare dei rifiuti nucleari e che possono durare fino a 20.000 anni.

Il nucleare civile non è una soluzione per i cambiamenti climatici, ma una cinica scommessa dell’industria nucleare di salvare se stessa.

Il nostro deve essere un NO chiaro anche al nucleare civile.

Vari conflitti imposti dai poteri forti a rischio di guerra nucleare.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con la paura universale di violenza da parte di tutta l’umanità, con il suo spaventoso carico di morte e distruzioni, al contrario la politica rassicurante attualmente sostiene che non ci possiamo lamentare in quanto il mondo ha vissuto oltre settant’anni di pace, proprio grazie al cosiddetto ‘equilibrio nucleare’.

Nulla di più falso!

La deterrenza nucleare, che è una gara di potere, è sempre usata dalle superpotenze in termini ricattatori e assurdi e crudeli per tutta l’umanità soprattutto nell’attuale guerra in Ucraina.

 Ma si dimentica di dire che dal 1945 ai giorni attuali, i conflitti armati veri e propri sono stati più di un migliaio e che nel mondo permangono numerosi, endemici focolai di conflitto violento e armato che hanno fatto decine di milioni di morti e fanno tuttora la fortuna dei produttori di armi e del complesso militare e industriale e fossile e energetico. Con in testa la Nato e gli Stati Uniti l’industria delle armi si alimenta a dismisura innescata come una miccia dal sistema, apparato, complesso militare e industriale e fossile.

L’irrisolta conflittualità armata Mediorientale, che può sfociare nell’irreversibile epilogo nucleare

Uno dei punti nevralgici, che può innescare un conflitto nucleare esplosivo come una miccia all’ennesima e infinitesimale potenza, è rappresentato dal Medio Oriente, una regione per molti aspetti strategica, in primis per il fattore energetico, nella quale negli ultimi decenni la crisi si è ancora più aggravata con le due guerre contro l’Iraq e quella in Afghanistan, il focolaio nevralgico dell’Iran e l’irrisolto problema israelo-palestinese e analizzando il quadro bellico da varianti logistiche e valutando la situazione in un quadro differente, geopoliticamente parlando, possiamo includere anche la attuale e gravissima guerra in Ucraina.

L’irrisolto problema tra Israele e Palestina rappresenta senza dubbio l’elemento più emblematico e drammatico di questa situazione geopolitica dai connotati tragici, che sembrano praticamente irrisolvibili e indistricabili strategicamente.

Lo stesso dramma della Siria va inserito in questo contesto con il rischio già attuale di un’estensione della guerra civile nell’intera regione. Pare che il nodo vero, il terreno sul quale misurare la possibilità reale di una prospettiva di pace, convivenza e cooperazione in quella terra di conflitto, resta senza dubbio alcuno quello dei rapporti tra Israele e Palestina e non è certo a caso che sin dall’ultimo decennio del secolo scorso e anche nei primi anni del nuovo millennio, proprio in quell’area mediorientale, si è manifestato un forte e prioritario impegno umanitario e attivismo del mondo pacifista.

La società civile per “ricomporre l’infranto”

Ecco la ragione per la quale sembra opportuno, e forse necessario, ricostruire, sia pure sommariamente, il senso e la portata di un impegno umanitario e nonviolento e un attivismo di pace molto vivi e sentiti, che hanno visto esprimersi la generosità e la disponibilità di centinaia di donne e di uomini, di decine di istituzioni locali, di numerose associazioni che, generazione dopo generazione, hanno seminato nella terra, culla delle religioni monoteiste la cultura della pace e della convivenza, dove la società civile e le opere di volontariato laico si spendono per “ricomporre l’infranto”.

Sarebbe troppo lungo ricordare le innumerevoli iniziative lungo le quali si è dispiegato questo fondamentale impegno umanistico ancor prima che umanitario, dal “Times for Peace” che ha circondato con una catena umana di italiani, europei, israeliani e palestinesi le mura di Gerusalemme, fino ai progetti di concreta solidarietà con la comunità della cittadina di Rafha nel sud della striscia di Gaza e con la cittadina di Beit Yala alle porte di Betlemme, solo per ricordare i più significativi, oltre all’impegno di più di cinquanta comuni italiani sul terreno della cooperazione, nel tentativo di mettere assieme, far parlare, far interagire, far cooperare i rappresentanti di questi due popoli: Israele e Palestina.

di Laura Tussi

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Transform – L’intelligenza al servizio della guerra? e se fosse impiegata per il bene e la pace?

di Laura Tussi (sito)

“Se quanto si spende per le guerre, si spendesse per rimuoverne le cause, si avrebbe un accrescimento immenso di benessere, di pace, di civiltà: un accrescimento di vita”

Primo Mazzolari

sul sito TRANSFORM

Nella nostra vita di giovani attivisti, compagni di coloro che hanno combattuto per le grandi lotte del passato, ci confrontiamo con il problema della guerra e del militarismo e abbiamo ereditato la memoria dei compagni che con passione e con serietà nei movimenti sono riusciti a ottenere il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e il servizio civile in Italia.

Qualche vittoria l’hanno ottenuta loro i nostri compagni che a livello globale hanno visto infatti il ritiro delle truppe americane dal Vietnam, e a livello italiano la chiusura dei programmi per il cosiddetto nucleare civile in realtà legato al nucleare militare. Da uno spaccato storico della guerra in Vietnam sulla scia di tutte le guerre imposte dalla Nato e dagli Stati Uniti, fino ai giorni attuali, ecco l’inizio del nostro impegno antimilitarista. Perché fare Memoria storica è una cosa moderna. La forza delle memorie. È un incoraggiamento per i movimenti pacifisti nel continuare il loro operato anche quando questo sembra sbattere contro il muro di gomma del potere. Dei potentati economici, militari e politici.

La minaccia maggiore per la pace mondiale verrà negli anni successivi non dai comportamenti irrazionali di stati e individui, ma dalle legittime richieste dei diseredati del mondo.

La maggioranza di queste persone povere senza diritti vive un’esistenza marginale nei climi equatoriali.

Il surriscaldamento del pianeta, originato non da loro, bensì da pochi ricchi, colpirà soprattutto le loro fragili ecologie.

La loro situazione sarà disperata e manifestamente ingiusta. Perciò non ci si può attendere che si accontentino sempre comunque di aspettare la beneficenza dei ricchi. Se permetteremo dunque alla potenza devastante delle armi moderne di diffondersi in questo esplosivo paesaggio umano, innescheremo una conflagrazione in grado di travolgere tanto i ricchi quanto i poveri dell’ecosistema planetario.

La sola speranza per il futuro è riposta nella collaborazione internazionale, nella cooperazione tra Stati, legittimate dalla democrazia. È tempo di voltare le spalle alla ricerca unilaterale di sicurezza, in cui noi cerchiamo di rifugiarci dietro ai muri. Dobbiamo invece insistere nella ricerca dell’unità d’azione per contrastare sia il surriscaldamento del pianeta che per contrastare un mondo armato. Questi obiettivi gemelli costituiranno due condizioni fondamentali per la stabilità, mentre ci muoveremo verso il più ampio grado di giustizia sociale che, esso solo, può dare una speranza di pace. Anche alcuni degli strumenti legali necessari sono già a portata di mano come il trattato sui missili anti-balistici, la convenzione sui cambiamenti climatici, i trattati strategici sulla riduzione di armi, il trattato sul bando di test nucleari, il trattato di proibizione delle armi nucleari TPAN/TPNW. In quanto cittadini preoccupati, chiediamo a tutti i governi di impegnarsi per questi obiettivi, che costituiscono dei passi in avanti affinché il diritto internazionale prenda il posto della guerra. Per sopravvivere nel mondo che abbiamo trasformato dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Mai come oggi, il futuro di ciascuno dipende dal contributo di tutti.

La corsa alle armi è insostenibile, oltre che a essere un investimento in distruzione, un investimento in morte: le armi uccidono soprattutto i civili. Per questo dovrebbe meravigliare molto il silenzio e il rifiuto dei nostri politici sulla pace. Mentre continuano le sollecitazioni estreme e parossistiche per l’invio di armi in Ucraina. Oggi nessuna guerra è giusta: né in Iraq, né in Afghanistan, né in Libia, né in Siria. Né in Ucraina. Le folli somme spese in armi sono pane tolto ai diseredati del pianeta. Ma come cittadini in questo momento di estrema crisi, perché non crediamo tutti uniti, che non possiamo accettare una guerra in Afganistan che, anche se attualmente accantonata, ci è costata 2 milioni di euro al giorno? perché non ci facciamo vivi con i nostri parlamentari perché votino contro queste missioni, cosiddette umanitarie? E soprattutto per dire basta all’invio di armi in Ucraina?

La guerra in Libia è costata 700 milioni di euro e continuano gli investimenti per trattenere nei lager libici i migranti che fuggono da guerre, terrorismo, disastri ambientali, manovre economiche e così via. E quanti morti l’attuale guerra in Ucraina?

Come cittadini vogliamo sapere che tipo di pressione fanno le industrie militari sul parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’arma. Noi vogliamo sapere quanto lucrano su queste guerre aziende come Leonardo e non ultima RWM in Sardegna che produce bombe per l’Arabia Saudita al fine di bombardare lo Yemen. La RWM adesso vende a chi vuole armare l’Ucraina, come titolava in questi giorni il Giornale La Repubblica. Ma anche chiediamo di sapere quanto lucrano le banche in tutto questo e come cittadini chiediamo di sapere quanto va in tangenti ai partiti, ai governi che si sono susseguiti sulla vendita di armi all’estero. Negli anni scorsi abbiamo esportato armi per un valore di parecchi miliardi di euro. Allora scendiamo per strada, nelle piazze, per urlare il nostro no alle spese militari e che vinca la vita!

Laura Tussi

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Da Bruxelles le Donne Globali per la Pace dicono no alla politica di guerra della NATO

Scritto da: LAURA TUSSI

Il 6 e 7 luglio si è tenuto a Bruxelles l’incontro internazionale della rete Donne Globali per la Pace. In opposizione alla politica bellicista della NATO, all’interno delle aule del Parlamento Europeo le delegate si sono confrontate per produrre una Dichiarazione mondiale di pace. Ecco un resoconto e un’analisi di ciò che è scaturito dal meeting, resa possibile grazie alle informazioni diffuse e inviate con dovizia e tempestività da Cristina Ronchieri dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole.

Un ampio insieme di donne provenienti da tutto il mondo, un autentico incontro internazionale al femminile, Donne globali per la pace unite contro la NATO, già presente il primo giorno 6 luglio 2023 a Bruxelles, ha partecipato all’incontro organizzato all’interno del Parlamento Europeo per presentare la dichiarazione di pace che è stata discussa nei giorni del seminario contro il vertice NATO che si è tenuto a Vilnius in Lituania.

La delegazione ha potuto confrontarsi con due parlamentari del gruppo LEFT  Gue/NGL: Clare Daly e Ozlem Alev  Demirel. I paesi rappresentati nella riunione del 6 luglio 2023,  attraverso tante realtà pacifiste e politiche anche molto diverse tra loro, erano Belgio, Germania, Francia, Italia, Grecia, Cipro, Ungheria, Finlandia, Afghanistan, Australia, Stati Uniti, Ucraina, Marocco.

IL PRIMO GIORNO

Tutte le relatrici intervenute hanno sposato totalmente nei loro interventi i principi espressi nel documento, che si articola intorno a tre grandi rifiuti:

  • No alla NATO globale, a blocchi militari sempre più armati, alla guerra come modalità di risoluzione delle controversie internazionali
  • No alla militarizzazione della ricerca scientifica. Le giovani generazioni hanno diritto a un’educazione laica e democratica, ispirata ai valori della pacifica convivenza tra i popoli e gli Stati
  • No al coinvolgimento delle donne nei piani di guerra del patriarcato. No a qualsiasi “approccio di genere” nelle file della NATO
donne globali per la pace 1

La questione di genere ha quindi assunto un ruolo centrale al tavolo di Bruxelles. Il coinvolgimento delle donne ai vertici di un’organizzazione militare infatti non ha nulla a che fare con l’affermazione dei principi di uguaglianza, giustizia e pace che sono alla base delle lotte delle donne per la propria liberazione. Al contrario, è stato gridato un forte “sì” alla promozione del ruolo delle donne nei processi di pace, nonché al rispetto delle intenzioni autentiche della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite sulla partecipazione delle donne ai negoziati di pace. 

L’augurio delle partecipanti è stato quello di coordinarsi nell’informazione e nell’azione, in modo da ricostruire un movimento pacifista internazionale sempre più incisivo e strutturato che sia capace di contrastare le perverse logiche e la propaganda della subcultura della guerra e della difesa dell’occidente e della NATO. Alle parlamentari sono stati consegnati alcuni dossier, tra i quali quello sulla presenza dell’Alleanza Atlantica e sulla situazione della Sardegna, preparato da Patrizia Sterpetti di Wilpf Italia, con il prezioso contributo di Mariella Setzu di Cobas Scuola, entrambe attive nell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole.

In seguito alcune delle donne presenti hanno partecipato a una manifestazione a sostegno della Palestina, per denunciare gli ultimi misfatti di Israele, organizzata davanti al Ministero degli Affari Esteri. Molte relazioni sono state di carattere generale, sulle ingerenze NATO nei vari paesi, sulle armi nucleari e sull’uranio impoverito, fino all’analisi dei rapporti politici internazionali dopo l’ingresso recente della Finlandia all’interno della coalizione. Per i paesi africani i temi centrali sono stati il ruolo di AFRICOM e il crescente interesse di molti di essi a entrare nel blocco BRICS.

Stando ai feedback ricevuti, la presentazione dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e del suo lavoro è stata molto apprezzata. Allo stimolo e richiesta di monitorare cosa sta succedendo nei sistemi formativi degli altri paesi, hanno subito risposto le rappresentanti australiana, ungherese e belga, confermando che si stanno verificando gli stessi meccanismi, evidentissimi a livello universitario. Una delle coordinatrici ha accennato l’ipotesi di creare un “sottogruppo” di Global Women che si occupi dei settori istruzione e università. 

donne globali per la pace 2
IL SECONDO GIORNO

Il venerdì 7 luglio 2023, erano presenti circa 40 persone in sala e 30 collegate in streaming. A fine pomeriggio le partecipanti hanno organizzato un flash mob molto bello e partecipato in pieno centro a Bruxelles, simulando in una performance come la NATO stia distruggendo la libertà, l’economia e la vita dei paesi “sudditi”.

In seguito si è svolta l’ultima, intensissima, giornata ufficiale del  seminario di Global Women, con le relazioni mattutine – quasi tutte online – da parte di rappresentanti dell’area del Pacifico, come Australia, Hawai, Guahan, Filippine, Corea del Sud e alcune isole a sud del Giappone, Ryukyu e Okinawa. Ne è emerso un quadro di controllo totale da parte degli USA, e in parte anche del Giappone, con immani basi militari che oltretutto distruggono territori e ambiente, cui si aggiungono i continui test nucleari nelle isole Marshall, che devastano gli ecosistemi dei popoli indigeni, nel caso migliore ignorati.  

Sono intervenute rappresentanti dall’America Latina, come Colombia, Venezuela e Brasile, poi ricercatrici e un ricercatore attivista da USA e Canada. Il punto di vista nel presentare le attività e le strategie della NATO e le analisi della situazione sono stati molto interessanti. Infine una pacifista ucraina che attualmente vive in Ungheria e una rappresentante afgana. Questo importante evento è organizzato da un movimento pacifista e femminista, molto politico, lucido e schierato senza tentennamenti, che sta cercando di ricomporsi e di ricostruire quella rete internazionale che ha sofferto e soffre in questi anni di una debolezza estrema. 

L’augurio delle partecipanti è stato quello di coordinarsi nell’informazione e nell’azione, in modo da ricostruire un movimento pacifista internazionale sempre più incisivo e strutturato

IL VERTICE NATO DI VILNIUS

Martedì e mercoledì, 11 e 12 luglio 2023 a Vilnius, in Lituania, i Paesi NATO si sono confrontati sui temi della difesa collettiva. Ma al centro del dibattito c’è stata soprattutto la guerra in Ucraina. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato ospite tra i leader occidentali. Joe Biden ha catalizzato le attenzioni, anche se la scelta di inviare le bombe a grappolo alle truppe di Kiev sta spaccando il fronte alleato. Per l’Italia era presente la premier italiana. Molti i temi in agenda.

La rete Global Women For Peace United Against NATO, con rappresentanti di oltre 120 organizzazioni di 35 Paesi, si oppone fermamente all’uso di bombe a grappolo e di armi contenenti uranio impoverito e condanna i paesi, in particolare gli Stati Uniti e il Regno Unito, che le stanno inviando per l’uso in Ucraina. Mettiamo in guardia il governo ucraino e la Federazione Russa dall’uso illegale e criminale di queste armi.

Clicca qui per sottoscrivere l’appello delle Donne Globali per la Pace pubblicato oggi, lunedì 17 luglio.

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Sono passati oltre vent’anni da Genova 2001…

Conversazione con Vittorio Agnoletto.

Intervista di Laura Tussi a Vittorio Agnoletto

1 -Sono passati oltre vent’anni da Genova 2001. Un momento che ha segnato la vita di molte persone e che ancora oggi, dopo tante analisi politiche, indagini, processi, è una ferita aperta nella storia italiana. Come racconteresti ad una ragazza o a un ragazzo nato nel 2001 o dopo, l’epoca di Genova?

Direi loro che abbiamo fatto di tutto per lasciare ai giovani un mondo migliore e che il movimento altermondialista dell’inizio di questo millennio ha rappresentato un atto di enorme generosità perché, come ha ricordato Susan George, è forse stato il primo movimento di persone che non lottavano per avere un vantaggio per sé stesse, ma che lottavano per le generazioni future.

Ci siamo scontrati con dei poteri estremamente forti, poteri politici, economici e finanziari che non hanno esitato ad utilizzare qualunque forma di repressione per stroncare quel movimento. Proprio quel movimento però ha prodotto risultati estremamente importanti in tante parti del mondo. Penso, per esempio, a quanto è avvenuto in America Latina dove l’incontro tra i movimenti e le forze politiche di sinistra ha aperto un decennio di grandi cambiamenti nel quale milioni e milioni di persone sono state sottratte alla fame. In Europa il movimento è stato stroncato dalla repressione, ma ha seminato molto. Per esempio, credo che il risultato ottenuto dieci anni dopo sul referendum per l’acqua bene comune sia stato anche il risultato del movimento di Porto Alegre e di Genova. Prima di quegli anni il termine “Beni Comuni” non esisteva e a Porto Alegre e a Genova nel 2001 si comincia a dire in modo molto chiaro che ci sono dei beni e che sono essenziali per la vita umana e che devono essere sottratti alle leggi e alle logiche nefaste del mercato.

2-Alcune caratteristiche di quel movimento erano innovative, dalle decisioni prese per consenso alla capacità di trovare convergenze fra diversi. Secondo te, cosa ci hanno lasciato oggi le intuizioni del movimento altermondialista?

Quel movimento ha rappresentato un’esperienza unica nella storia del nostro Paese. Non vi è mai stato un movimento così vasto in grado di muoversi in modo unitario. Abbiamo sempre preso le decisioni per consenso. È vero. Ma l’interessante è spiegare in che modo abbiamo praticato questo obiettivo.  Non dovevamo per forza essere tutti d’accordo su tutto. La questione era impostata in un altro modo. Ci siamo detti: abbiamo tutti sottoscritto un “Patto di lavoro” e un documento sulle forme di mobilitazione (5/6/2001) che delineano l’orizzonte dentro il quale ci muoviamo; sono le idee e le regole che tutti abbiamo condiviso. All’interno di quanto stabilito nei due documenti è possibile prendere anche iniziative diverse. Pensiamo a Genova, a venerdì 20 luglio, quando abbiamo circondato la zona rossa. L’obiettivo non era che ognuno dichiarasse “io sono disponibile a partecipare a tutte le iniziative proposte”, ma che nessuno dei portavoce si alzasse per dichiarare che “No, quell’iniziativa che voi proponete non si può fare, è in contrasto con il Patto di Lavoro e con quanto abbiamo sottoscritto.”

I missionari, ad esempio, potevano dire: “Io pregherò a Boccadasse e non parteciperò al corteo delle Tute Bianche. Ma ritengo che le modalità con cui sarà organizzato quel corteo siano interne a quanto previsto dai documenti che tutti abbiamo sottoscritto.” E così via. Chi aveva proposto l’iniziativa delle Tute Bianche diceva “Noi faremo il corteo con le modalità indicate, nel rispetto delle persone e delle cose e non andremo a Boccadasse a pregare perché non siamo credenti, ma riteniamo che anche quella scelta si inserisca all’interno di quanto scritto nel “Patto di Lavoro”. In questo modo la sintesi uscita dalla riunione dei portavoce, non era un accordo al ribasso, ma era un’intesa che rilanciava e teneva unito il movimento.

Il consiglio dei portavoce, costituito da diciotto persone, era anch’esso uno strumento importante di democrazia. Ogni portavoce si riferiva a un gruppo di associazioni, comitati, sindacati, di base e Fiom e via dicendo con il quale era omogeneo per settore di intervento: dalle associazioni che lavorano sull’ambiente e quelle di solidarietà coi migranti, a quelle impegnate nella tutela della salute e così via. Ogni portavoce riportava la discussione del Consiglio alle associazioni che rappresentava e il parere di costoro nella riunione dei portavoce. Una volta assunte le decisioni il portavoce del movimento, il sottoscritto, le doveva comunicare all’esterno cercando di rappresentare l’immagine e l’unità del movimento. Era un’unità reale ed è quella che ha spaventato molti poteri.

Infatti, hanno fatto di tutto per cercare di rompere quell’ unità. Ecco, credo che questo modello potrebbe fornire anche idee e suggerimenti nella situazione attuale dove vi sono diversi movimenti e campagne, spesso monotematici, che hanno difficoltà nel lavorare insieme e a costruire delle reti. Forse da quell’esperienza ci può arrivare qualche insegnamento.

3 – Dal 1992 al 2001 sei stato presidente nazionale della LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS). Hai avuto importanti incarichi presso il ministero della salute e nel 1994 sei stato “medico dell’anno” secondo la rivista specializzata “Stampa Medica”. La visibilità che ti ha dato l’essere stato il portavoce del Genoa Social Forum, ha in qualche modo determinato cambiamenti nella tua vita professionale? Hai subito ritorsioni a causa delle tue scelte?

Non vi è ombra di dubbio che l’esperienza del Genoa Social Forum (GSF) ha modificato completamente la mia vita, anche perché contro il GSF è stato costruito un muro durissimo, lo dobbiamo dire, dall’insieme del sistema politico, partitico, mediatico. Salvo pochissime eccezioni è subentrato un tentativo di criminalizzare fortemente il movimento. Non dimentichiamo che addirittura ci sono state proposte di considerare il GSF un’associazione sovversiva. E ovviamente anche la mia vita e la mia figura ne hanno risentito. Sono stato escluso e buttato fuori dalla Commissione Nazionale AIDS e dalla Commissione per la lotta alle tossicodipendenze, che facevano riferimento l’una del ministero della Sanità e l’altra del ministero degli Affari sociali. Sono stato espulso da un giorno all’altro. Non perché non avessi più le competenze scientifiche, ma per decisione politica dei ministri di allora. La mia vita anche lavorativa ha dovuto ricominciare completamente dall’inizio. Eppure, avevo già quarantatré anni. Detto questo, rifarei quelle scelte perché credo che nella vita sia importante essere coerenti nei comportamenti con quello che si pensa, con le proprie idee, consapevoli che, quando si fanno determinate scelte queste poi si pagano.

Anche perché che senso avrebbe avuto continuare a battermi con la Lila per far arrivare i farmaci contro l’AIDS in tutto il mondo, lottando contro i brevetti e contemporaneamente far finta di non sapere che quelle decisioni erano frutto delle politiche neoliberiste decise dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, d’accordo con Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale che in quella fase storica operavano sotto la regia del G8? Non sarebbe stato serio non denunciare quelle responsabilità.

Poi ognuno, ovviamente, sceglie che senso dare alla propria vita.

4 – Dopo Genova 2001, lo smarrimento si è impadronito di molte persone, molti giovani soprattutto che hanno sperimentato il volto feroce dello Stato. Quel volto feroce che, anche oggi si manifesta verso le persone più deboli e indifese. Tu pensi che l’azione nonviolenta che comincia a manifestarsi, soprattutto in forma spontanea, possa diventare contagiosa ed essere motivo di speranza?

Mi auguro che l’azione nonviolenta possa diventare contagiosa. Credo alla forza delle azioni nonviolente quando sono azioni collettive e di massa; per realizzare queste è necessario un altissimo livello di consapevolezza e di coscienza politica.

Costruire azioni nonviolente di massa richiede tempo, esperienza e grande fatica, ma è evidente che il confronto deve svolgersi su questo terreno. Se andiamo su altri terreni rischiamo di contribuire alla fine della Storia umana. Alla fine del pianeta. Non credo che ci possa essere una soluzione con la forza. Non lo credo per quello che riguarda le dinamiche sociali e tantomeno lo credo per quello che riguarda il quadro politico internazionale, con riferimento anche all’attuale guerra in Ucraina.

5- Sei stato parlamentare europeo dal 2004 al 2009 e in seguito, nel 2010, candidato alla presidenza della Regione Lombardia. Poi, nel 2015 hai fondato, insieme ad Emilio Molinari e Piero Basso, l’associazione “Costituzione Beni Comuni”. Questa scelta di “uscire” dall’ambito istituzionale da cosa è stata motivata? Quali sono gli ambiti di cui si occupa l’associazione?

Costituzioni Beni Comuni si occupa dei temi contenuti nel nome stesso dell’associazione: si batte per difendere i principi della Costituzione italiana e in particolare per sottolineare come i diritti devono prevalere sulle leggi del mercato. In questo contesto troviamo la battaglia per i Beni Comuni, per l’acqua, per l’accesso ai farmaci, impegno che condivido anche in Medicina Democratica, per un lavoro stabile sottratto alla precarietà e per tante altre istanze.

Ma il punto centrale è sempre il conflitto, che attualmente attraversa tutto il mondo, tra la logica del profitto e l’affermazione dei diritti umani. Non vi è nessuna possibilità di mediazione, anche perché i diritti sono un unico insieme indivisibile e questo oggi è estremamente attuale. Non si possono dividere i diritti civili dai diritti sociali o ci sono entrambi o non ci sono i diritti. I diritti civili riguardano più gli aspetti dell’individualità, mentre i diritti sociali riguardano quella parte di ciascuno di noi che è collettività e che è socialità e ambedue questi diritti hanno dietro secoli di lotta. Non bisogna dividerli. Li dobbiamo tenere insieme. Questo è uno dei principi fondanti di Costituzione Beni Comuni.

Credo che in questo momento il ruolo che possono svolgere le associazioni e la società civile e i movimenti possa essere estremamente importante. Nel mondo politico vedo degli orizzonti molto molto limitati e anche troppo autocentrati. Siamo in un momento complicato. Gli schemi del passato servono poco. Necessitiamo di elaborare nuovi orizzonti e nuovi immaginari sul mondo che vogliamo e credo che questo lavoro fondamentale possa realizzarsi principalmente nella società civile. Detto questo non è che il bene sta da una parte e il male dall’altra.

La politica istituzionale è e resta assolutamente necessaria, così come nella società civile abbiamo purtroppo esempi di associazioni che mettono al primo posto l’esaltazione della loro identità anziché gli obiettivi per i quali dicono di battersi. Quindi non esiste una linea di demarcazione così netta, ma credo che oggi la priorità sia quella, dentro il mondo della società civile, di elaborare e di sperimentare nei territori pratiche di democrazia e di liberazione, perché una teoria senza pratiche non va lontano.

6 – Secondo la tua esperienza e guardando alla realtà odierna, su quali temi le realtà attente alla solidarietà e alla costruzione di umanità dovrebbero oggi maggiormente impegnarsi?

I temi li conosciamo tutti. Ne continuate a parlare e svolgete un lavoro incredibile voi stessi, Laura e Fabrizio, di elaborazione e di divulgazione.

Oggi siamo consapevoli che per la prima volta nella storia umana in discussione vi è il futuro dell’umanità e il futuro del pianeta e non è detto che le due cose coincidano per forza. Perché potrebbe, un domani, esserci anche un pianeta senza umanità per come siamo messi. Quindi l’obiettivo principale è dare un futuro al Pianeta e agli esseri viventi e per fare questo è necessario cambiare il modello di sviluppo e anche rallentare e modificare i ritmi delle nostre vite.

È altresì necessario costruire sperimentazioni di convivenza globale e quindi estromettere la guerra dalla Storia e tutto questo non si può fare senza una lotta per la giustizia sociale, ma queste sono cose che conoscete bene. Oggi è prioritario costruire ponti tra i vari movimenti. Esistono i movimenti per la pace, quelli per i diritti dei migranti, movimenti ambientalisti e quelli per il diritto alla salute e all’abitare, solo per citarne alcuni. Dobbiamo avere la stessa consapevolezza che abbiamo avuto vent’anni fa costruendo il Genoa Social Forum: nessuno di noi può vincere la propria singola battaglia. Da soli noi non vinceremo mai. Parlo anche di me, del nostro impegno contro i brevetti sui farmaci e sui vaccini, campagna che non potrà raggiungere il suo obiettivo se non riusciremo almeno a ridimensionare fortemente il potere dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) che è uno dei pilastri del neoliberismo. L’OMC è anche l’organizzazione che distrugge l’agricoltura di prossimità, protegge l’agrobusiness, favorisce la conquista dei terreni in Africa da parte delle multinazionali con il conseguente abbandono delle terre da parte dei contadini e i processi migratori forzati che ne conseguono. Allora se, dalla parte del neoliberismo tutto si tiene, è fondamentale che a maggior ragione questo avvenga anche dalla nostra parte.

Dobbiamo far sì che i nostri movimenti, certo rimanendo centrati sulla propria specificità, imparino a lavorare insieme a trovare le connessioni. Così come abbiamo imparato che ogni lotta ha una dimensione locale e una globale, così oggi dobbiamo essere consapevoli che una campagna settoriale non ha nessuna possibilità di cambiare la nostra situazione e di costruire un futuro diverso. Forse è assolutamente inflazionata questa parola: “Ponti”; però credo che sia attuale, non solo per ripudiare le guerre; dobbiamo costruire ponti e ponti, reti e strumenti di connessione e comunicazione ed è anche venuto il momento di dire che queste devono essere imprese collettive.

Davanti non dobbiamo mettere l’ “io”.

Nel momento in cui l’umanità rischia di non avere futuro davanti ci deve essere il ‘noi’ e per ‘noi’ dobbiamo intendere l’insieme dell’umanità. Non è un principio religioso o puramente etico, è certamente anche un principio etico, ma oggi coincide con l’obiettivo della sopravvivenza ed è quello che ci distingue dall’avversario. Perché il neoliberismo ci sta massacrando tutti, sta concentrando il potere in un numero sempre minore di persone, ma poi, tra gli stessi rappresentanti del neoliberismo si innescano guerre e confronti letali per la conquista di fette sempre maggiori di mercati e di profitti. Così come, per fare un esempio su un altro terreno, il nazionalismo, produce conflitti e guerre tra i sostenitori dei vari nazionalismi che oggi sembrano uniti come un solo uomo nel dare la caccia ai migranti. È sufficiente guardare quello che in queste settimane sta accadendo tra il nostro governo, la Polonia e l’Ungheria. Ecco noi dobbiamo avere proprio una prassi diversa. Superare ogni forma di individualismo e lasciare lo spazio al “noi” e noi è l’umanità: l’umanità intera.

7- Su quali basi e con quali soggetti potrebbe riemergere oggi, a livello nazionale e internazionale, un movimento con tanta intensità?

Sapessi rispondere non saremmo qui a discutere, ma staremmo conducendo delle battaglie vittoriose.

Non ho una risposta su tutto questo. Penso solo che oggi non ci sia più spazio per movimenti a dimensione puramente nazionale. Lo scontro è globale, i movimenti devono essere globali, le strategie devono essere globali; questo è anche uno dei motivi della crisi della politica, perché la politica partitica, se va bene, si dà un orizzonte nazionale e in tempi limitatissimi, ad esempio quelli di una legislatura legati alle fortune di uno o di un altro leader. Quindi dobbiamo costruire movimenti universali e alleanze con i popoli di tutti i continenti, avendo la capacità precisa di individuare l’avversario. Un esempio. Lo continuo a ripetere: è inaccettabili che la vita di sette miliardi e 800 milioni di persone sia nelle mani di quattro o cinque consigli di amministrazione delle aziende che producono farmaci e vaccini e che ne detengono i brevetti.

Organizzare una campagna mondiale contro questa situazione significa organizzare una vertenza mondiale per un vero diritto alla vita; dopo di che questa si deve connettere con le altre campagne, come quelle per la difesa dell’ambiente perché sappiamo che non ci può essere un futuro per solo un pezzo di umanità.

Dobbiamo sottolineare e non sottovalutare due aspetti. Innanzitutto, l’importanza dell’informazione. La rete web è fondamentale perché oggi, anche nei Paesi occidentali, non solo in quelli con sistemi dittatoriali, i mezzi di comunicazione sottostanno a logiche monopolistiche e in Italia lo sperimentiamo molto più che in altri Paesi.

Anche per questo è importante il lavoro e l’impegno che voi portate avanti quotidianamente, un contributo piccolo, ma che si inserisce in un processo ampio, fondamentale e articolato di informazione alternativa.

L’altro aspetto importantissimo è l’educazione, che significa anche costruzione di memoria. Sono preoccupatissimo del fatto che le giovani generazioni studino sempre meno la Storia; che non conoscano il passato e quindi abbiano difficoltà a connettere tra di loro i singoli eventi e a dotarsi di una lettura generale. È fondamentale fare informazione, educazione e formazione e non è un caso che il nostro avversario, cioè il neoliberismo, agisca per distruggere la scuola pubblica e l’università. Al neoliberismo non servono persone pensanti, non ha bisogno di cittadini in grado di sviluppare una capacità critica. Ha bisogno solo di persone pronte ad obbedire.

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Sovranità Popolare Rivista – Laboratori e iniziative di attivismo nonviolento nella Rovereto degli anni novanta, sulla scia del pensiero di Alex Langer.

IL CENTRO DI EDUCAZIONE ALLA PACE DI ROVERETO E LA SPERIMENTAZIONE DI FORME CREATIVE DI COINVOLGIMENTO

Sovranità Popolare Redazione ArticoliCultura e Filosofia 0

Trincee della grande guerra. A memoria per ricordare la guerra è inutile

Di Laura Tussi

Sin dagli anni ottanta il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto ha portato avanti una fondamentale attività per la diffusione di una cultura di pace e nonviolenza attraverso iniziative innovative che hanno fatto scuola in tutta Italia. Il tutto nel segno di una figura storica del mondo dell’attivismo trentino, italiano e internazionale di cui è appena ricorso il 28esimo anniversario della scomparsa: Alex Langer.

Comiso, Baghdad, Sarajevo… Erano gli anni ottanta, e poi novanta: a livello nazionale e globale si assisteva quasi inermi, ma con una grande volontà di azione e cambiamento, a condizioni di violenza e ferocia conclamate che continuavano la storia di sempre con un’accelerazione dopo gli eventi del 1989. Proprio nei giorni in cui ricorre il 28esimo anniversario della morte di uno dei maggiori protagonisti della scena pacifista: Alex Langer.

Ma sembrava che un’alternativa fosse possibile: la capacità di mobilitazione, sollecitata da organismi collettivi e da reti spontanee e in espansione strutturata. Era la prova di una opinione pubblica indisponibile ad accettare gli orrori delle nuove guerre e la logica dell’iniquità e dell’ingiustizia sociale in diversi settori. Il concetto di comunismo cominciava a essere reinterpretato dopo il 1989 e riattualizzato in questi ambiti sociali di interazione e dialogo.

Senza illusioni di un successo immediato, vista la disparità delle forze, ma con la consapevolezza che la nuova società aveva possibilità di sbocciare: quella della partecipazione in chiave pacifista e comunista e quella che ad un certo punto si sarebbe riassunta nello slogan “fuori la guerra dalla storia”.

Con orgoglio si è parlato e si è sentito il riconoscimento dall’esterno di un laboratorio Trentino per la nonviolenza e di educazione alla pace, e di formazione alle dottrine politiche, come il comunismo e diversi mondi di riferimento politici e religiosi – laico, cattolico, valdese, islamico eccetera – che vi hanno partecipato.

Di questo laboratorio, Rovereto e il Trentino, sono stati un centro felice e chi, per volontà o per caso, ha potuto circolare tra questo incrocio di progetti, ne ha misurato l’impegno e le potenzialità non sempre pienamente realizzate. Nel piccolo ambito di Rovereto, gli attivisti si sono sentiti grandi, aperti, collegati con il mondo e le sue miserie, ma anche le sue forze nobili, impegnati sui temi che entro lo sguardo critico sui giochi planetari, erano e sono le direttrici per il pensiero e l’azione di una nuova civiltà, di un’azione terrena basata sul comunismo degli ideali.

La pace, i diritti, l’ambiente, la crescita di panorami nuovi di cittadinanza, la crisi dei comunismi. Su questo gli attivisti si sono impegnati operando su una molteplicità di livelli: dalla manifestazione all’approfondimento tematico, dai progetti con le scuole e i primi incontri e percorsi civicamente interculturali.

Il comitato delle associazioni per la pace e i diritti umani era molto attivo e ha una lunghissima storia nel pensiero delle ideologie del ventesimo secolo che si apriva con tutto il suo bagaglio di contraddizioni, ma anche di atrocità, da Auschwitz a Hiroshima per aprirsi al ventunesimo secolo e alle sue complessità nella coscienza planetaria e nelle comunità di destino.

L’opposizione ai missili Cruise e la carica ideale terzomondista, con un ideale di comunismo e condivisione mondiali, sono state alle radici di un soggetto rimasto attivo fino ai tempi attuali. Sono ancora presenti le realtà fondatrici, se ne sono aggregate altre nate in seguito, si sono promossi gruppi di lavoro e nuove esperienze di associazionismo strutturato e di incontro informale. Si è affermato più che una ricambio, una crescita generazionale e intergenerazionale, nell’avanzata del pensiero che acquista attualità con il disarmo nucleare universale.

La dialettica interna anche sulla politica e l’ideale comunista, a volte anche non poco sofferta, è stata garantita dai diversi mondi di riferimento politici che vi hanno partecipato.

Il centro di educazione permanente alla pace, gestito dal comitato, dal 1992 è il luogo fisico per la progettualità, la formazione, la testimonianza, la documentazione. Intorno a queste istanze è stata pensata e perseguita la rete per l’educazione alla pace a livello nazionale. Qui si sono incontrati una moltitudine di protagonisti dal basso: Testimoni dalla ex Jugoslavia, nonne e madri di Plaza de Majo, parenti di deportati civili e razziali per motivazioni politiche e deportati politici stessi tutti sopravvissuti ai lager e campi di sterminio nazifascisti, monaci tibetani, come anche attivisti di tanti paesi africani e così via.

Qui si sono avvicinate ottiche diverse e culture tra le più disparate e si sono svolti percorsi importanti sul potenziamento delle iniziative e soprattutto sull’emancipazione della donna: si è cercato di analizzare insomma quel processo dal quartiere all’ONU, al palazzo di vetro a cui qualcuno degli attivisti è arrivato davvero.

Si sono sperimentate forme creative di coinvolgimento. E si sono avviate le prime proposte di formazione rivolta agli insegnanti per far entrare nella scuola metodi e contenuti coerenti con un diverso futuro, senza prescindere dal passato e dal passato prossimo. Sono partiti i primissimi, volontaristici corsi di italiano per stranieri, che erano contemporaneamente occasioni di conoscenza reciproca. Si sono sviluppate diverse iniziative sui beni comuni, a partire dalla campagna sull’acqua e sul nucleare civile e militare e le proposte per uno sviluppo sostenibile.

A Rovereto fa centro il comitato migranti, una larga rete per l’accoglienza in relazione, tramite incontri e corsi con i giovani profughi ospitati nel territorio. Negli anni novanta del secolo scorso, Rovereto ha visto svilupparsi progetti di ricerca e informazione a respiro internazionale con i quali il comitato ha cercato di interagire, come l’Università dell’istruzione dei popoli per la pace e l’osservatorio sui Balcani e Caucaso. L’ attività dell’Università dell’istruzione dei popoli per la pace ha portato in città i più impegnati studiosi su pace, nonviolenza, diplomazia popolare e azione politica, globalizzazione. E con questi per le sessioni annuali dei corsi, sono arrivati giovani da tutto il mondo, portatori di vissuti ed esperienze comunitarie e professionali davvero esemplari.

Ragionare con rigore scientifico sui meccanismi del conflitto e della possibilità di dialogo politico, della violenza strutturale e quindi di principi di economia mondiale. Far incontrare in un percorso comune studenti israeliani e palestinesi; portare nelle scuole l’attivista nigeriana, lo studente nepalese, il giornalista colombiano.

Questo e altro ancora si è cercato di portare nel tessuto cittadino fino all’esperienza internazionale.

I corsi locali hanno poi investito ambiti molteplici, come l’educazione interculturale, l’amministrazione pubblica, l’economia, la solidarietà internazionale, la cooperazione politica.

E anche su questo si è sempre tentato di portare riflessione ed esperienza a destinatari di più ampio respiro oltre l’azione d’aula.

Ma per tutta questa storia rimandiamo a spazi e strumenti appositi.

È difficile misurare nelle sue ricadute l’attivismo di tante vite, di una comunità variegata e di così ampio respiro e vasta entità di pensiero. Sono sempre stati consapevoli della difficoltà di far percepire alla città la presenza continuativa, il lavoro veramente quotidiano, aldilà delle manifestazioni di maggiore visibilità.

Allargare la partecipazione, agganciare nuovi interlocutori, far circolare idee e proposte in ambienti più vasti. Si sono mantenuti come obiettivi paralleli ad un’iniziativa come il fare memoria di storie di questi decenni, come le deportazioni politiche nei lager nazifascisti, che è una necessità molto impellente. Tanto più lo è oggi, quando è difficile contare sulle grandi risposte pubbliche che hanno accompagnato gli anni novanta. Con la coscienza di quanto si è costruito e la ricognizione su quello che vive, rinforziamo il nostro sguardo verso il futuro. Per superare l’attuale tragica congiuntura di estrema deriva bellicista in Russia e Ucraina e Europa oltre il conflitto, oltre l’estremo limite della potenziale terza guerra mondiale con il suo tragico epilogo nell’Armageddon, ovvero l’apocalisse nucleare.

Siti di riferimento:

Salviamolo Salviamoci ! Contro il nucleare.

https://www.facebook.com/laura.tussi/videos/1953776988319817

Riflessioni sulla contemporaneità:

  • Pugliese F., Abbasso la guerra. Persone e movimenti per la pace dall’800 a oggi, Grafiche futura, Mattarello – Trento
  • Pugliese F., I giorni dell’arcobaleno. Diario- cronologia del movimento per la pace, prefazione di Alex Zanotelli, Futura, Trento
  • Pugliese F., Per Eirene. Percorsi bibliografici su pace e guerra, diritti umani, economia sociale, Forum Trentino per la pace e i diritti umani, Trento
  • Pugliese F., Carovane per Sarajevo. Promemoria sulle guerre contro i civili, la dissoluzione della ex Jugoslavia, i pacifisti, l’ONU (1990-1999), Prefazione di Lidia Menapace, Introduzione di Alessandro Marescotti, Alfonso Navarra, Laura Tussi
  • Manifesti raccontano…Le molte vie per chiudere con la guerra,a cura di Vittorio Pallotti e Francesco Pugliese, Recensione di Laura Tussi, Prefazione di Peter Van Den Dungen, coordinatore generale della Rete Internazionale dei Musei per la Pace e Joyce Apsel, Università di New York
  • Strada G., Ma l’abolizione della guerra non è un’utopia di sinistra, in La Repubblica, 2006.
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Fausto Dalla Valentina: i social possono essere uno strumento di pace

Scritto da: LAURA TUSSI

Fausto Dalla Valentina si definisce un “piccolo sociologo”, che è anche il nome che ha dato ai suoi canali social. Attraverso essi, senza inseguire la logica del click baiting, propone contenuti che cercano di suscitare consapevolezza e che vanno dalle domande esistenziali più profonde all’informazione sui temi chiave del pacifismo, del disarmo e della nonviolenza.

Fausto Dalla Valentina si potrebbe definire un innovativo influencer sui generis. Il suo spazio divulgativo si chiama Piccolo Sociologo. Ma Fausto svolge il suo ruolo in modo molto positivo, creativo e costruttivo. Con il suo impegno lancia messaggi di pace, nonviolenza e – perché no? – amore. Lui si definisce un “vlogger”, poiché pubblica video in cui trasmette contenuti di pensieri e concetti molto profondi con un linguaggio estremamente essenziale, ma molto pertinente, semplice e comprensibile da tutti. Fra i temi caldi del momento trattati sui canali social di Fausto Dalla Valentina – per cui è stato invitato più volte in televisione per gestire conversazioni con un contraddittorio ovviamente – c’è la guerra in Ucraina.

Fausto ti riconosci nella presentazione che ho fatto di te?

Sì e ti ringrazio per le belle parole. Quello dell’influencer può essere un ruolo molto positivo, ma io non sento di rientrare in questa categoria. È vero che comunico sui social e utilizzo gli hashtag, ma solitamente un influencer tende a direzionare il suo agire soprattutto verso ciò che i suoi followers prediligono. Io invece mi baso su ciò che mi appassiona, anche se è contro i miei interessi nell’ottica “like”. Poco dopo il 24 febbraio 2022 ho lanciato l’iniziativa con l’hashtag #ParliamoDiPace che ancora circola tanto e ormai conta centinaia di post, svariati video, articoli nel mio blog ed interviste varie, compresa quella con te e Fabrizio Cracolici.

fausto dalla valentina
Qual è il riscontro di questo tuo modo di comunicare presso il pubblico?

Come per la pandemia, la guerra in Ucraina è stato uno spartiacque. Per questa mia presa di posizione molti hanno smesso di seguirmi e addirittura svariati conoscenti mi hanno tolto l’amicizia su Facebook. Per non parlare delle centinaia di insulti su YouTube, quasi tutti incentrati sull’accusa infondata di “se parli di pace sei un putiniano”.

Riguardo le apparizioni televisive, nella puntata di Diritto e Rovescio del 5 maggio 2022, pensavo mi avessero invitato tra varie voci pacifiste, non immaginavo di essere invece l’unico quella sera in studio a parlare di pace e più che un contraddittorio si è trattato di un “tutti contro uno”. In ogni caso per me vale sempre la pena dare voce alla pace. Vlogger è più quello che faccio, non quello che sono. Mi definirei più un ricercatore esistenziale.

Gli argomenti che tratti maggiormente partono dalla ricerca esistenziale?

La domanda esistenziale “chi siamo” è centrale per me, perché ci pone in discussione. Apparentemente astratta e filosofica, può sembrare che non porti da nessuna parte, ma continuare a porsela ci fa scoprire ad esempio chi non siamo, chi crediamo di essere, i nostri condizionamenti e pregiudizi e, se anche non trovassimo una risposta definitiva, ci riporta al presente in modo pratico, per divenire chi vogliamo essere.

Se poi andiamo ancora più in profondità, chiedersi chi siamo significa osservarsi, generare un testimone che scruta la coscienza. Se ci manteniamo costanti nell’auto-osservazione cominciamo a identificarci sempre più con l’osservatore piuttosto che con l’osservato. E qui si fa interessante, per non dire sconvolgente, rispetto all’idea diffusa di un io come entità unica e indivisibile.

https://youtube.com/watch?v=EjCjz-r_Wag%3Ffeature%3Doembed
Parli anche di identità personale e collettiva, dei nostri valori etici e condizionamenti, dello sviluppo di un pensiero critico: questo coinvolge anche l’approccio con la natura etica ed ecologica e l’ambito politico che affronti con atteggiamento satirico.

Esatto, più che sulla sociologia la mia impostazione pare basata sulla tuttologia. L’identità ci viene soprattutto trasmessa dalla cultura che troviamo nelle condizioni di nascita, ci identifichiamo come individui in gruppi di appartenenza spesso contrapposti e questa è una delle basi di cui si nutre la guerra. Abbiamo spesso un’identità limitata, che difficilmente va oltre al proprio ruolo lavorativo/sociale, figuriamoci oltre la propria nazione. Un’identità molto limitata perché – come narra Pirandello nel fu Mattia Pascal – se smetto di interpretare un determinato ruolo identitario, chi sono io a quel punto?

Ci crediamo uomini moderni e civilizzati, ma molti scontri armati avvengono ancora per contese di territori, così come accadeva ai tempi dei primitivi. Se provassimo ad andare oltre i nostri piccoli confini esterni, soprattutto ideologici, il nostro patriottismo non sarebbe più solo delimitato dalle lingue o da stili di vita differenti ma potremmo sentirci tutti parte di una patria planetaria.
Come fu per il muro di Berlino, oggi a partire dalla NATO, dobbiamo abbattere il muro ideologico che divide il mondo in fazioni contrapposte.

Il sociologo Galtung ad esempio aveva individuato tre forme di violenza: diretta, strutturale e culturale o simbolica. Su queste basi, come puoi descrivere il tuo concetto di violenza?

Le varie forme di violenza intrappolano la pace in una gabbia buia. È la bramosa economia di guerra che trae profitto dalla morte e specula sulla sofferenza. Poi c’è la totale incapacità politica dei governi e delle istituzioni internazionali di agire con strumenti diplomatici di mediazione. Ma non è finita, la lista sarebbe ancora lunghissima. Suonerà strano ma la pace è prigioniera anche di chi, pur essendo contro la guerra, rimane silenzioso e inerte, pensando che sia competenza e facoltà esclusiva dei governanti porre fine ai conflitti. Siamo stati persuasi che la guerra alcune volte può essere considerata giusta: l’inganno per giustificare l’uso della violenza.

Dobbiamo abbattere il muro ideologico che divide il mondo in fazioni contrapposte

Non distinguiamo più tra azioni sagge o stolte ma viviamo nell’automatismo polarizzato “noi siamo buoni, i cattivi vadano all’inferno”. Così, per uccidere “loro” siamo disposti a fare uccidere pure i “nostri”. Come diceva Gandhi, «la violenza è un suicidio». Ma esiste una via d’uscita: il dialogo è la chiave per liberare la pace. Ci sono nuovi modelli eroici che nulla hanno a che fare con i sacrifici sanguinosi; al contrario, mostrano il coraggio di rinunciare alla rivalsa del proprio ego, mettendo al primo posto il bene comune, disinnescano l’escalation della violenza, perseverando nella costruzione di ponti d’incontro.

Rifacendomi al Mahatma, per sconfiggere il senso di impotenza e di rassegnazione che attanaglia buona parte della popolazione serve una prolungata marcia condivisa di disobbedienza civile nonviolenta, ma per ottenere risultati deve essere utilizzata in modo ricorrente come strumento democratico di massa. Siamo in un momento cruciale per l’umanità: se al nostro progresso tecnologico non corrisponde un equivalente sviluppo evolutivo, sarà come dare a un bambino di 4 anni una Ferrari al posto di una macchina giocattolo. Dobbiamo crescere la nostra statura etico morale e ripudiare quella antropocentrica, tornando con la massima urgenza a essere parte armonica della natura del mondo dal quale ci siamo alienati.

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Il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto e la sperimentazione di forme creative di coinvolgimento

Scritto da: LAURA TUSSI

Sin dagli anni ottanta il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto ha portato avanti una fondamentale attività per la diffusione di una cultura di pace e nonviolenza attraverso iniziative innovative che hanno fatto scuola in tutta Italia. Il tutto nel segno di una figura storica del mondo dell’attivismo trentino, italiano e internazionale di cui è appena ricorso il 28esimo anniversario della scomparsa: Alex Langer.

TrentoTrentino Alto Adige – Comiso, Baghdad, Sarajevo… Erano gli anni ottanta, e poi novanta e a livello nazionale e globale si assisteva quasi inermi, ma con una grande volontà di azione e cambiamento, a condizioni di violenza e ferocia conclamate che continuavano nel solco della storia di sempre, ma con un’accelerazione dopo gli eventi del 1989. Eppure sembrava che un’alternativa fosse possibile: la capacità di mobilitazione, sollecitata da organismi collettivi e da reti spontanee e in espansione strutturata. Era la prova di una opinione pubblica indisponibile ad accettare gli orrori delle nuove guerre e la logica dell’iniquità.

Senza illusioni di un successo immediato, vista la disparità delle forze, ma con la consapevolezza che la nuova società aveva possibilità di sbocciare: quella della partecipazione in chiave pacifista e quella che a un certo punto si sarebbe riassunta nello slogan “fuori la guerra dalla storia”. Fra le tante, è interessante ripercorrere un’esperienza in particolare –il laboratorio Trentino per la nonviolenza e di educazione alla pace e in particolare il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto –, proprio nei giorni in cui ricorre il 28esimo anniversario della morte di uno dei maggiori protagonisti della scena pacifista trentina.

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Questo laboratorio infatti e il Trentino tutto sono profondamente legati alla propizia e quanto mai carismatica personalità di Alex Langer. Il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto è stato un luogo felice e chi, per volontà o per caso, ha potuto circolare tra questo incrocio di progetti, ne ha misurato l’impegno e le potenzialità non sempre pienamente realizzate. Nel piccolo ambito della città trentina, gli attivisti si sono sentiti grandi, aperti, collegati con il mondo e le sue miserie, ma anche le sue forze nobili, impegnati sui temi che entro lo sguardo critico sui giochi planetari, erano e sono le direttrici per il pensiero e l’azione di una nuova civiltà.

La pace, i diritti, l’ambiente, la crescita di panorami nuovi di cittadinanza. Su questo gli attivisti che hanno strutturato i lavori del Centro di Educazione alla Pace si sono impegnati operando su una molteplicità di livelli: dalla manifestazione all’approfondimento tematico, dai progetti con le scuole e i primi incontri e percorsi civicamente interculturali. Il comitato delle associazioni per la pace e i diritti umani era molto attivo e forte, già allora, di una lunghissima storia.

L’opposizione ai missili Cruise e la carica ideale terzomondista sono state alle radici di un soggetto rimasto attivo fino ai tempi attuali. Sono ancora presenti le realtà fondatrici, se ne sono aggregate altre nate in seguito, sono stati promossi gruppi di lavoro e nuove esperienze di associazionismo strutturato e di incontro informale. Si è affermato più che una ricambio, una crescita generazionale. La dialettica interna, a volte anche non poco sofferta, è stata garantita dai diversi mondi di riferimento politici e religiosi – laico, cattolico, valdese, islamico e altri – che vi hanno partecipato.

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Il centro di educazione permanente alla pace, gestito dal comitato, dal 1992 è il luogo fisico per la progettualità, la formazione, la testimonianza, la documentazione. Intorno a queste istanze è stata pensata e perseguita la rete per l’educazione alla pace a livello nazionale. Qui si sono incontrati una moltitudine di protagonisti dal basso: testimoni dalla ex Jugoslavia, nonne di Plaza de Majo, monaci tibetani, attivisti di tanti paesi africani e così via.

Qui si sono avvicinate ottiche spirituali diverse e culture religiose e si sono svolti percorsi importanti sul potenziamento delle iniziative e soprattutto sull’emancipazione della donna: si è cercato di analizzare insomma quel processo dal quartiere all’ONU, al palazzo di vetro a cui qualcuno degli attivisti è arrivato davvero.

Il Centro di Educazione alla Pace è stato un luogo di sperimentazione di forme creative di coinvolgimento, una per tutte “danzare la pace”. E si sono avviate le prime proposte di formazione rivolta agli insegnanti per far entrare nella scuola metodi e contenuti coerenti con un diverso futuro. Sono partiti i primissimi, volontaristici corsi di italiano per stranieri, che erano contemporaneamente occasioni di conoscenza reciproca. Si sono sviluppate diverse iniziative sui beni comuni, a partire dalla campagna sull’acqua e le proposte per uno sviluppo sostenibile.

Uno degli obiettivi del Centro di Educazione alla Pace è il “fare memoria” di storie di questi decenni, che è una necessità comunque

A Rovereto fa centro il comitato migranti, una larga rete per l’accoglienza in relazione, tramite incontri e corsi con i giovani profughi ospitati nel territorio. Negli anni novanta del secolo scorso, la città trentina ha visto svilupparsi progetti di ricerca e informazione a respiro internazionale con i quali il comitato ha cercato di interagire, come l’Università dell’istruzione dei popoli per la pace e l’osservatorio sui Balcani e Caucaso. Il decennio di attività dell’Università dell’istruzione dei popoli per la pace ha portato in città i più impegnati studiosi su pace, nonviolenza, diplomazia popolare, globalizzazione. E con questi per le sessioni annuali dei corsi, sono arrivati giovani da tutto il mondo, portatori di vissuti ed esperienze comunitarie e professionali davvero esemplari.

Ragionare con rigore scientifico sui meccanismi del conflitto e della possibilità di conciliazione, della violenza strutturale e quindi di principi di economia mondiale; far incontrare in un percorso comune studenti israeliani e palestinesi; portare nelle scuole l’attivista nigeriana, lo studente nepalese, il giornalista colombiano. Questo e altro ancora si è cercato di portare nel tessuto cittadino fino all’esperienza internazionale. I corsi locali hanno poi investito ambiti molteplici, come l’educazione interculturale, l’amministrazione pubblica, l’economia, la solidarietà internazionale.

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E anche su questo si è sempre tentato di portare riflessione ed esperienza a destinatari di più ampio respiro oltre l’azione d’aula.
Ma per tutta questa storia rimandiamo a spazi e strumenti appositi. È difficile misurare nelle sue ricadute l’attivismo di tante vite, di una comunità variegata. Sono sempre stati consapevoli della difficoltà di far percepire alla città la presenza continuativa, il lavoro veramente quotidiano, aldilà delle manifestazioni di maggiore visibilità.

Allargare la partecipazione, agganciare nuovi interlocutori, far circolare idee e proposte in ambienti più vasti sono stati mantenuti come obiettivi paralleli a un’iniziativa come il “fare memoria” di storie di questi decenni, che è una necessità comunque. Tanto più lo è oggi, quando è difficile contare sulle grandi risposte pubbliche che hanno accompagnato gli anni novanta. Con la coscienza di quanto si è costruito e la ricognizione su quello che vive, rinforziamo il nostro sguardo verso il futuro. Per superare l’attuale tragica congiuntura di estrema deriva bellicista in Russia e Ucraina oltre il conflitto, oltre l’estremo limite della potenziale terza guerra mondiale con il suo tragico epilogo nell’apocalisse nucleare.

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Libera Cittadinanza – Donne Globali per la Pace, unite contro la NATO e le politiche belliche

DI LAURA TUSSI – italiachecambia.org – 30/06/2023

Il movimento delle Donne Globali per la Pace unisce centinaia di attiviste della nonviolenza e del disarmo di tutto il mondo. Cercando di incarnare i valori della sorellanza, della solidarietà e della sostenibilità ambientale, il movimento si oppone alle politiche di molti paesi e organismi sovranazionali che, soprattutto in questo momento storico, hanno preso una decisa e preoccupante deriva bellicista.

Introduzione e riflessione:

Il potere è l’ombra oscura opposta all’amore universale e al femminile.

Il femminile è creatività universale contro la violenza.

Per dire NO all’invio di armi in guerra.

Nella cittadinanza planetaria, le donne costituiscono la parte più fragile, ma attiva, dei tanti sud del mondo, dove vi è un pensiero al femminile con la coscienza della terrestrità umana e della solidarietà universale contro ogni guerra e conflitto armato.

https://www.peacelink.it/pace/a/47753.html

Commento:

A Bruxelles a Luglio, in contrapposizione e netto contrasto con il summit e vertice Nato di Vilnius in Lituania, si terrà una importante conferenza di donne impegnate per la pace e che provengono da tutto il mondo e hanno soprattutto come comune denominatore l’amore per madre terra, per il pianeta e l’assetto ecosistemico planetario e universale.

Nella loro Dichiarazione comune dal titolo: “Donne Globali per la Pace, Unite contro la NATO” le donne del movimento per la pace affermano:”Abbiamo a cuore i principi universali di uguaglianza giustizia e pace affermati dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani”. Questo movimento femminile per la pace a livello planetario lotta per l’affermazione dei diritti delle donne e dei popoli, delle genti e delle minoranze contro ogni forma di violenza, in tutta la sua morfogenesi e i suoi livelli e sviluppi e in quanto genere femminile si professano contro ogni tipo di sfruttamento e modalità di discriminazione.

Le donne di pace da molti anni si impegnano contro ogni brutale manifestazione di violenza che trova la sua massima espressione nell’attività militare e nel suo tragico e inevitabile epilogo: la guerra nucleare.

Le donne per la pace contrastano nettamente il capitalismo che è padre del patriarcato, della mercificazione del corpo delle donne e soprattutto del militarismo e di tutte le attività belliche e dimostrazioni guerresche che hanno come stampo il maschilismo patriarcale e il machismo.

“Lottiamo per affermare una nuova sicurezza non militarizzata, che garantisca la vita e la salute delle generazioni presenti e future su questo pianeta, oltre che del pianeta stesso”.

L’aspirazione alla pace di carattere femminile è oggi minacciata da una escalation della corsa al riarmo, dell’incremento delle spese militari in tutto il mondo che provocano miserie e gravi pericoli per l’umanità intera come il rischio della terza guerra mondiale e dell’apocalisse nucleare, “dalla riproposizione di alleanze militari contrapposte e dalla militarizzazione crescente delle relazioni internazionali”. Tutto questo rischia di portare l’umanità alla catastrofe e soprattutto all’estinzione totale della storia e del passato, presente e futuro del genere umano nella sua totalità e nelle sue istanze valoriali. “Responsabili del crescente pericolo di scontro globale sono state in gran parte le decisioni assunte dalla NATO fin dal 1991, il cui ultimo approdo è il cosiddetto “Nuovo Concetto Strategico” concordato all’ultimo vertice dei capi di stato e di governo dei paesi NATO a Madrid nel 2022”.

Al vertice di Madrid, la Nato approva il più importante rafforzamento delle proprie capacità dalla fine della guerra fredda e porterà le forze militari a oltre 300 mila unità. Così afferma il segretario generale Nato Jens Stoltenberg nella conferenza stampa di presentazione del vertice di Madrid.

Così la Nato vuole sostituirsi a funzioni e compiti che sono di esclusiva responsabilità delle Nazioni Unite. “Questa NATO globale, che agisce nell’interesse dei paesi ricchi dell’Occidente, ha esteso le sue attività fino al Pacifico e pretende di imporre un “modello di civiltà” ben oltre l’area euroatlantica del Trattato originario”.

Al vertice di Vilnius in Lituania, la Nato ribadirà agli stati membri di imporre la condizione di incrementare le spese belliche e in generale gli investimenti militari oltre il 2 per cento del Prodotto Interno Lordo e devolverle alla guerra e all’assetto guerrafondaio, mentre le popolazioni devono affrontare crisi economiche e aumenti del costo della vita davvero insopportabili e non sostenibili da una qualità dell’ esistenza che si vorrebbe felice e edificante.

Tutto questo spettro di situazioni insostenibili, perché disumane e fuori dalla sopportazione umana, si accompagna a processi politici contrassegnati da crescente autoritarismo e dal riemergere di ideologie neofasciste, nazionaliste, xenofobe e sessiste, incoraggiate dal preoccupante diffondersi del militarismo nella cultura e della colpevolizzazione di ogni forma di pacifismo e azione nonviolenta per contrastare lo status quo.

Nel prossimo vertice dei capi di stato e di governo della NATO che si svolgerà a Vilnius, in Lituania a luglio, il Nuovo Concetto Strategico sarà ulteriormente elaborato, accrescendo il pericolo globale, a livello planetario. Verrà anche istituito un fondo speciale di investimento, finanziato con fondi pubblici, per start-up e rinnovamento tecnologico, con il quale si intende “incoraggiare esplicitamente la commistione dell’educazione scientifica e della formazione dei giovani con la ricerca militare”.

Le donne di pace e soprattutto a favore della pace, rifiutano la NATO e una visione del mondo di stampo militarista, patriarcale e maschilista, che inasprisce i conflitti internazionali, ed è inconciliabile con il principio della tutela e salvaguardia dell’intero ecosistema planetario e di madre terra a livello globale. In un afflato femminile che vuole da sempre la fine della discordia del genere maschile e al contrario afferma il riproporsi del femminile come creatività per la pace, il disarmo, la nonviolenza.

Come donne di pace, le donne contro la NATO, nella tragica congiuntura attuale danno una possibilità alla pace e credono a un barlume di speranza contro l’oscurantismo del male assoluto. Le donne credono a “un nuovo ordine mondiale multicentrico e multipolare basato su decisioni condivise, sulla giustizia sociale e ambientale, sulla condivisione di risorse e tecnologie, sulla transizione all’azzeramento degli arsenali militari”. Questo è quanto il movimento delle donne per la pace ha sostenuto al Vertice di Madrid l’anno scorso. Vogliono promuovere il ruolo delle donne nei processi di pace. Tramite il rispetto delle intenzioni autentiche della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite sulla partecipazione delle donne ai negoziati di pace.

“Abbiamo in programma di parlare di tutto questo a Bruxelles. Organizzeremo una discussione aperta il 7 e 8 luglio 2023 e inviteremo le donne di tutto il mondo a unirsi a noi, siano esse dei paesi membri della NATO o meno. Sono benvenute/i tutte e tutti coloro che condividono con noi questi obiettivi: parlare a favore della pace, della vita e della liberazione delle donne”.

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