Pubblicato il Lascia un commento

Emergenza climatica: che fare

di Guido Viale

Che cosa significa dichiarare l’Emergenza climatica, come hanno fatto i Parlamenti di Regno Unito e Irlanda (ma non quello italiano) e centinaia di comuni in tutto il mondo, tra cui Milano e, a seguire, Napoli? Nei fatti, niente. Dopo quella dichiarazione tutto prosegue come prima e i responsabili possono lavarsene le mani. Quella dichiarazione legittima però ogni richiesta fondata di fermare subito le attività che aggravano la situazione e di spostare al più presto le risorse finanziarie e umane disponibili su iniziative che concorrono al drawdown, a invertire le tendenze in atto. Per questo, oltre a Comuni, Municipi, Regioni, Scuole, Direzioni didattiche, Università, questa richiesta va presentata anche a tutti i corpi intermedi: stampa, tv, sindacati, associazioni, rappresentanze di imprese, diocesi, parrocchie, partiti.

Molte adesioni possono innescare un effetto valanga, che finirà per coinvolgere tutti, anche perché la situazione del clima sta peggiorando sotto i nostri occhi. L’importante è individuare, con ciascun interlocutore, le priorità (e non è facile, vista la nostra impreparazione); e poi incalzarlo perché alle parole seguano i fatti. Si può cominciare sottoponendo chi ha fatto la dichiarazione alla verifica delle tre regole di Extinction Rebellion, il movimento che ha bloccato mezza Londra per due settimane.

Primo: dire la verità (Tell the Truth). Che cosa hanno fatto, e che cosa intendono fare, quegli enti e i relativi responsabili – per esempio il sindaco di Milano, o i sindacati che andiamo a incontrare – per far sapere a coloro che rappresentano (elettori, lavoratori, ascoltatori, lettori, associati, dipendenti, studenti, fedeli, ecc.) che la vita e la convivenza umane su questo pianeta sono di fronte a un passaggio irreversibile che le renderanno, se non impossibili, decisamente ostiche per tutte le generazioni a venire, a partire da ora? Basta formulare pubblicamente questa domanda per scoperchiare un abisso. Se non si è negazionisti (cosa oggi impossibile) tutti gli interpellati devono ammettere di essere venuti meno alle proprie responsabilità: di aver ignorato o volutamente nascosto una cosa di una gravità sconvolgente, nota da tempo, che avrebbe dovuto imporre di abbandonare progetti, programmi e iniziative in corso o, per lo meno, di imprimere loro un cambiamento drastico. Perché non lo si è fatto? Difficile per loro rispondere; deve diventare altrettanto difficile non farlo.

Secondo: agire subito (Act now). Non deve più essere possibile dire una cosa e farne un’altra: dare una tessera onoraria a Greta e poi manifestare per tenere aperte le trivelle (ma di esempi come questi se ne contano decine). Se il rischio è immenso e imminente (ma non è un rischio; è una certezza), altrettanto grandi e immediati devono essere gli sforzi per prevenirlo. E se avviare nuovi progetti richiede tempo (ma non tanto: la rapida riconversione dell’industria degli Stati Uniti per fare fronte alla Seconda guerra mondiale citata da Stiglitz fa testo), fermare attività e interventi che aggravano lo stato del pianeta può essere fatto subito. E qui non c’è bisogno di studi: sono tutte le cose contro cui sono scesi in campo movimenti locali, nazionali, o mondiali: produzione e vendita di armi, Tav, Terzo valico, Olimpiadi, Tap, pesticidi, navi da crociera, nuove autostrade, altoforni dell’Ilva, invasione delle auto, ecc.

Bisogna riuscire a spiegare che per ogni posto di lavoro che si perde ce ne sono almeno due, e forse più – meno nocivi per chi li fa e per chi ci abita intorno e più utili per tutti – nelle attività necessarie alla conversione ecologica: negli impianti per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, nella ristrutturazione di tutti gli edifici, in un’agricoltura biologica che rispetti il suolo, avvalendosi di tutti i ritrovati della ricerca agronomica, nella riorganizzazione della mobilità sia urbana che di lunga percorrenza, nel riassetto e nella rinaturalizzazione dei territori, nella gestione e nel recupero di scarti e rifiuti, oltre che in tutte quelle attività da cui dipende direttamente il nostro benessere: sanità, istruzione, cultura, assistenza ai più deboli, ecc. E bisogna adoperarsi perché il passaggio da un posto di lavoro a un altro venga programmato consensualmente, con le modalità di una promozione sia economica che sociale. Se l’ingiustizia nasce dal mancato rispetto per la Terra, il suo risanamento porta con sé maggiore equità.

Terzo: promuovere la partecipazione (Call assemblies): è la conseguenza diretta degli altri due punti: nell’informare il maggior numero di persone possibile bisogna offrire a tutti l’opportunità di chiarire i dubbi e di scoprire che c’è una risposta possibile e necessaria. Ma per addentrarsi nelle cose da fare, occorre articolare l’obiettivo generale della transizione casa per casa, strada per strada, impresa per impresa, scuola per scuola, comune per comune, ecc. Solo chi vive, lavora o studia in un determinato ambito può sapere veramente che cosa si può fare e a che cosa si può rinunciare. Per ora nessuno di noi lo sa, perché non se ne è mai discusso. Per questo, con il supporto dei tecnici, le assemblee sono innanzitutto luoghi di auto educazione.