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GLI USA NON VOGLIONO CITARE L’ACCORDO DI PARIGI – IL G7 ENERGIA FINISCE SENZA UN COMUNICATO UNITARIO

(A CURA DI REDAZIONE)

Il G7 energia a Roma finisce senza comunicato unitario. Per il delegato di Trump, il segretario all’Energia Rick Perry, non si potevano inserire in esso i riferimenti all’attuazione della COP21 di Parigi e alla decarbonizzazione dell’economia, che, strategicamente, comporta la fuoriuscita dalle fonti fossili.
I governi europei appaiono preoccupati e lo stesso premier Gentiloni, al termine del vertice Euromed, si è fatto sentire, una volta tanto: “L’Europa accetta l’opinione di tutti ma non accetta passi indietro rispetto agli impegni assunti a Parigi nella lotta al cambiamento climatico”.
Carlo Calenda, del MISE, da padrone di casa, ha ribadito che “rimane forte e deciso l’impegno per tutti gli altri Paesi (che non siano gli USA – ndr) e per la Commissione UE a implemntare l’accordo di Parigi”.
Anche senza dichiarazione congiunta, il vertice romano svoltosi il 9 e il 10 aprile al Palazzo del MISE, termina con diverse intese di massima sulla lunga lista di temi al centro della due giorni. “È stato raggiunto un accordo su molti argomenti importanti come gli sforzi congiunti per garantire la sicurezza energetica all’Ucraina, il ruolo futuro del gas, la cybersecurity nel settore energetico”, ha affermato Calenda che porta a casa un importante consenso: quello sul progetto del gasdotto EastMed, che dovrebbe portare in Europa il gas dei giacimenti di Israele e Cipro nel Mediterraneo orientale. Il progetto del nuovo “corridoio strategico”, lungo 2.200 chilometri e profondo 3, è stato presentato al summit del G7 Energia dopo la firma d’impegno alla realizzazione, lo scorso 4 aprile, da parte di Italia, Israele, Cipro, Grecia e Unione europea. I lavori potrebbero partire alla fine del 2017 per permettere la commercializzazione delle riserve energetiche, per 2mila miliardi di metri cubi di gas, entro il 2025.
Dal Sole 24 Ore apprendiamo che oggi (11 aprile 2017) Calenda rivedrà Perry in un incontro dedicato ai dossier bilaterali, rinviando al vertice di Taormina un eventuale nuovo passaggio sul dossier climatico.
Ricordiamo che l’obiettivo degli accordi COP 21 è quello di restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, con l’impegno a portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi”, oltre alla promessa, da parte degli Stati firmatari, “di raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile”, sino ad arrivare ad “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo”.
Ma, al di là della retorica d’occasione, non sembra che nei piani concreti dell’Italia ci ci sia l’abbandono del modello fossile a favore delle rinnovabili. La Strategia energetica nazionale (SEN) è tale solo per modo di dire ed ha la caratteristica di essere slegata dal piano climatico, o SEC.
(Una caratteristica che, a dire il vero, si riscontra anche nei contropiani dell’opposizione politica).
Il gasdotto TAP, oggi alla ribalta per la protesta dei pugliesi e per gli interventi di blocco della magistratura, è emblematico di una mentalità “fossile” che non vuole proprio essere dismessa.
Due fattori in particolare sconsigliano di considerare prioritari gli investimenti sulle infrastrutture legate all’estrazione del gas:
1. Lo sviluppo dell’efficienza energetica, l’aumento delle fonti rinnovabili in Europa e la crisi economica che ha fatto calare sia l’offerta che la domanda dei combustibili tradizionali;
2. l’Europa è abbastanza preparata ad eventuali “sorprese” da parte russa sul gas ed ha alternative per sopravvivere se Gazprom dovesse decidere di chiudere i rubinetti.
Il comunicato ufficiale del MISE lo si rinviene al seguente link: http://www.mise.gov.it/index.php/it/198-notizie-stampa/2036365-g7-energia
Sul nostro sito, www.ilsolediparigi.it, per documentazione, è possibile leggere quella che è la sintesi conclusiva del presidente, il Chair’s Summary (in inglese, pdf).
Per maggiori informazioni
Sito Presidenza italiana G7
www.g7italy.it

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LA COP 23 DI BONN RIMETTA SUI BINARI LO SPIRITO DI PARIGI di Alfonso Navarra

L’accordo di Parigi (12 dicembre 2015), su cui pure è imprescindibile lavorare, ha una trappola simile a quella del Trattato di Non Proliferazione: non c’è una scadenza che fissi la DECARBONIZZAZIONE TOTALE dell’economia, cioé l’azzeramento delle emissioni di C02: questo è un grosso risultato della lobby fossile (e nucleare).
Altro punto debole sono i controlli “autocertificati”.
Ed infine non sono chiari i meccanismi del “Fondo verde” che dovrebbe investire dal 2020 al 2025 100 miliardi di dollari l’anno.
Quello che è certo è che gli attuali impegni nazionali autodeterminati faranno aumentare la temperatura a 3,5° C: una catastrofe assoluta.
Ma anche se viene raggiunto l’obiettivo ufficiale dei 2°C siamo praticamente quasi rovinati, come spiega il Rapporto Stern (ex capo economista della Banca Mondiale incaricato dal governo inglese), QUI consultabile nei materiali:
– Diminuzione del 30% della disponibilità di acqua in Africa e nel Mediterraneo.
– Brusca riduzione della resa agricola nelle regioni tropicali.
– 40/60 milioni di persone esposte alla malaria.
– 10 milioni colpite da esondazioni.
– Da 15 a 40% delle specie a rischio di estinzione
– Fusione del ghiaccio della Groenlandia.
– Aumento di livello del mare di 7 metri
– Brusche variazioni nella circolazione atmosferica.
– Rischio di collasso dell’Antartico occidentale.
– Rischio di collasso della circolazione termosalina atlantica.
A Marrakech con la COP 22 del novembre 2016 la sensazione è che le lobby fossili abbiano ripreso ulteriore spazio. Sono un settore produttivo che inneggia retoricamente al libero mercato ma che in realtà, secondo le stesse stime del FMI, percepisce aiuti pubblici, diretti e indiretti per 5.300 miliardi di dollari all’anno, vale a dire il 6,5% del Pil mondiale!
Questo è un aspetto su cui vale la pena insistere: se eliminassimo questa montagna di sussidi impliciti ed espliciti, si stima, le emissioni di gas serra calerebbero del 20%, un passo avanti determinante nella lotta al global warming sulla quale si stanno facendo pochi progressi. Eliminare il vantaggio che carbone, petrolio e gas si prendono a spese di tutti dimezzerebbe anche il numero delle morti premature causate ogni anno dall’inquinamento atmosferico.
Inoltre, eliminando questi aiuti e facendo pagare alle fossili i danni che creano, in molti Paesi si darebbe una spinta determinante alle finanze pubbliche, spingendo gli investimenti in infrastrutture, sanità, lotta alla povertà e Stato sociale.
Infine, togliendo i sussidi a gas, carbone e petrolio le diverse fonti energetiche fossero messe nelle condizioni di competere veramente alla pari, spiegano dal blog del FMI, ci sarebbe molto meno bisogno di incentivi alle rinnovabili, che comunque al momento – pesando per 120miliardi di dollari l’anno a livello mondiale secondo la stima IEA per il 2012 – sono praticamente un’inezia in confronto a quelli delle fossili.
La COP 23 si terrà a Bonn dal 6 al 17 novembre 2017. (Per informazioni su Bonn: http://unfccc.int/meetings/bonn_nov_2017/items/10068.php.) Si è deciso che la presidenza, però, non andrà alla Germania, bensì alle Isole Fiji. Una scelta dal valore altamente simbolico, se si tiene conto del fatto che sono proprio gli “Stati Isola”, gli atolli e le piccole nazioni insulari ad essere più a rischio a causa dei cambiamenti climatici.
Si spera che in quella sede avanzi e si concretizzi la discussione sui finanziamenti di solidarietà dei Paesi più ricchi nei confronti dei Paesi più poveri, che sono anche quelli che più subiscono l’impatto delle catastrofi nazionali.
Anche per questo aspetto possiamo citare lo studio di una istituzione che viene considerata complice degli “straricchi”: la Banca Mondiale. Un suo recente rapporto (scaricabile al link: https://openknowledge.worldbank.org/handle/10986/25335) indica che in tutto il mondo, ogni anno, le catastrofi naturali generano perdite pari a 520 miliardi di dollari e spingono sotto la soglia di povertà, fissata a 1,9 dollari al giorno, circa 26 milioni di persone. Sono cifre esorbitanti, rivelatrici del fatto di quanto le stime della Banca mondiale, in termini economici ed umani, siano nettamente superiori a quelle fornite finora dalle Nazioni Unite. La Banca mondiale si è infatti basata, per il suo studio, non solo sulle perdite materiali, come ad esempio i danni agli edifici e alle infrastrutture, ma ha anche tenuto conto di altre conseguenze dirette sulla popolazione più vulnerabile come ad esempio le difficoltà di accesso alle cure mediche e ad una alimentazione adeguata, l’ interruzione e l’abbandono di un percorso scolastico.
Le catastrofi naturali colpiscono quindi in modo più drammatico le popolazioni più povere, che “subiscono solo l’11 per cento dei danni materiali, ma perdono il 47 percento in termini di benessere”. Il rapporto cita l’esempio dell’uragano Matthew che ha colpito Haiti e gli Stati Uniti lo scorso ottobre : “I danni sono stati valutati in 2 miliardi di dollari ad Haiti e in 7 miliardi negli Stati Uniti. Ma in realtà l’evento è stato decisamente più devastante nell’isola centro-americana.”
Il rapporto mette in evidenza anche le contromisure necessarie per far fronte a tali conseguenze sociali ed umane e conclude : “Pochi eventi climatici estremi minacciano di annullare decenni di progresso contro la povertà”.
L’Europa continua ad incentivare il nucleare ed è soggetta alle direttive Euratom, che recepisce automaticamente.
L’Unione Europea ha definito nell’ottobre del 2014 una Strategia su clima ed energia che prevedeva l’obiettivo vincolante per gli Stati membri di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra nel territorio dell’Unione di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990, e di contribuire con una quota di almeno 27% di energia rinnovabile e un miglioramento del 27% dell’efficienza energetica. Ma nel 2015 i Paesi dell’Ue hanno consumato sì meno energia, ma non meno fonti fossili: gli sforzi per decarbonizzare i sistemi energetici e i trasporti sono troppo lenti. Secondo i dati Eurostat (del 20 febbraio 2017), è aumentata l’incidenza dell’importazione di combustibili fossili nell’UE che soddisfa il 73% della domanda.
Bene fanno quindi i movimenti di base a mobilitarsi con iniziative internazionali, come è avvenuto l’11 marzo scorso, sesto anniversario di Fukushima, a Fessenheim (centrale nucleare stravecchia, al confine tra Francia e Germania) e Strasburgo, sede del Parlamento europeo.
A livello italiano registriamo invece la proposta di Strategia Energetica Nazionale (SEN) del Ministro Calenda, con la sua pecca di fondo nell’impostazione: separare l’energia dal Piano integrato sul clima.
Quindi il problema che ci si pone a livello governativo non è come decarbonizzare il settore energia, ma come – è una vecchia solfa! – abbassare le bollette a suo dire troppo caricate dagli incentivi alle rinnovabili (quelli alle fossili, 15 miliardi di euro all’anno, non si toccano!) e come evitare che ENEL chiuda le sue vecchie centrali termoelettriche.
In realtà sappiamo che la vera strategia energetica decisa dall’Italia (che coincide con buona parte della politica estera) è quella decisa dalle multinazionali parapubbliche ENI ed ENEL, soprattutto dalla prima.
All’ENI possiamo fare risalire, lo dimostreremo con vari articoli su questo sito, il nostro avventurismo bellico in Libia.
Abbiamo poi la politica PRO-TRIV rinfrancata dal referendum che il movimento non è riuscito a vincere nell’aprile 2016.
Ai No TRIV, spalleggiati dai No TAV, dobbiamo oggi aggiungere i No TAP: i cittadini che protestano a Melendugno contro il gasdotto che dall’Azerbaigian porterà il gas in Puglia, dopo aver attraversato l’Adriatico (TAP sta per Trans Adriatic Pipeline). La molla della ribellione popolare è l’espianto dei 200 circa ulivi secolari nel cantiere dove sarà installato l’impianto che permetterà il passaggio di gas (adesso il Tar del Lazio ha accolto la richiesta di sospensiva degli espianti avanzata dalla Regione Puglia).
E’ importante questo collegamento pratico tra realtà di “opposizione a un modello di sviluppo basato sulla distruzione del territorio e alla speculazione economica ai danni della popolazione”.
Ma non si vede al momento la capacità di formulare e perseguire una strategia realmente alternativa a ciò contro cui ci si oppone.

Alfonso Navarra www.ilsolediparigi.it

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IL FILORUSSO TRUMP CI PORTERA’ ALLA GUERRA CONTRO LA RUSSIA? di Alfonso Navarra

Il fatto che i Cruise contro l’aeronautica militare di Assad siano partiti da portaerei americane della VI Flotta con comando a Napoli lo mette in rilievo: l’Italia, in una vasta area che dal Medioriente e Nordafrica arriva fino al Mar Nero, è una fondamentale piattaforma di lancio della strategia militare Usa/Nato che coinvolge contraddittoriamente gli appetiti “energetici” degli ex imperi europei.
Gli Stati Uniti e gli alleati europei della Nato sono responsabili di una situazione di conflitto sempre più pericolosa, provocata dal fallimento delle “primavere arabe” (eccetto che in Tunisia) che sta conducendo, con l’intervento determinante di aggressioni militari “esterne”, all’esplosione di Stati a loro tempo costruiti a tavolino da patti coloniali anglo-francesi sulle rovine dell’Impero Ottomano o sulle avventure del colonialismo italiano in Africa (vedi Libia).
La loro azione si innesta su conflitti religiosi millenari (il contrasto sunniti-sciiti) e su più recenti contrasti nazionalistici tra arabi e persiani, etnie arabe e Stati arabi, arabi contro israeliani (derivanti dal sionismo installato in Palestina dall’imperialismo inglese).
I gruppi terroristi come l’ISIS (quest’ultima costituita in gran parte da ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein dismesso) sono strumentalizzati in parte da potenze straniere (in particolare godono della complicità della Turchia contro i Kurdi e del finanziamento dell’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo) ma la loro ideologia ed il loro progetto politico ha basi indipendenti, così come le Brigate Rosse in Italia, pur con le loro infiltrazioni, non erano una invenzione della CIA ma sostanzialmente autonome.
Ad aumentare ulteriormente il caos conflittuale, pagato duramente e sanguinosamente soprattutto dalle popolazioni civili, si pone l’intervento russo a sostegno del regime di Assad, e volto a sostenere ambizioni oltretutto esagerate da Grande Potenza che però non ha base economica (a parte la produzione di combustibili fossili).
Il ruolo di Putin a fianco dell'”asse sciita” in Medio Oriente non è un ruolo difensivo e di pace (che senso ha una flotta militare russa nel Mediterraneo) ma aggiunge violenza a violenza in un contesto degradato in cui, per così dire, “il più pulito ci ha la rogna”.
Un effetto collaterale dell’attacco missilistico del neopresidente USA Trump è comunque la pietra tombale sulla prospettiva di collaborazione USA e Russia “contro il terrorismo” in Medio Oriente.
L’anomalia Trump sta per essere “digerita” dall’establishment cui pretendeva di opporsi: si veda l’esclusione dal consiglio di sicurezza nazionale dell’ideologo parafascista Steve Bannon.
E’ possibile, insomma, che da una amministrazione accusata di essere “filorussa” possa venire una vera e propria guerra contro la Russia perché le aree in cui Washington e Mosca si fronteggiano direttamente stanno diventando sempre più calde. Si pensi a quello che poteva succedere se, per errore, un Cruise avesse colpito un caccia russo negli hangar di Shayrat!
Noi, “popolo della pace”, non possiamo starcene con le mani in mano mentre infuria la “guerra mondiale a pezzetti” (copyright papa Francesco), aumentando il rischio sottostante di una catastrofica guerra nucleare. Dobbiamo esercitare i nostri diritti costituzionali ed umani, ripudiando la guerra mediante la riproposizione di una soluzione ragionevole: esigendo allo stesso tempo la dissociazione dell’Italia e dell’Europa dall’interventismo militare bellico nel Mediterraneo ed in Medio Oriente; così come dalla deterrenza nucleare NATO.
La poltica di pace deve fondarsi su una grande conversione energetica ed ecologica, che coinvolga gli attori oggi in conflitto nel lavoro comune per attuare l’accordo di Parigi sul clima, quello da cui Trump sta cercando di far recedere gli USA.
Mettiamola ancora sull’ironico: non dimentichiamo che, se continuiamo a pestarci per motivi identitari legati a giochi di piccolo o grande potere, per il controllo di fonti energetiche da cui l’Umanità intera ha deciso ufficialmente di fuoriuscire, il nostro destino sarà, per la scienza ufficiale e non per il mago Otelma, di finire tutti, donne e uomini di qualsiasi colore, religione, nazione, in senso proprio, a mollo!

Alfonso Navarra

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La (nuova) Strategia energetica nazionale del ministro Calenda è un film già visto – di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Il governo è al lavoro sulla nuova Strategia energetica nazionale (Sen). Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (v. audizione 1 marzo in X commissione Senato) ha spiegato che la “vecchia” Sen va aggiornata “a seguito delle profonde trasformazioni economiche e in particolare del mercato energetico occorse negli ultimi quattro anni”. Vorremmo sottolineare “economiche” e “mercato” per cogliere la cultura di chi ha ipocritamente firmato la Convenzione di Parigi sul clima e la scarsa credibilità di tutti i riferimenti al cambiamento strutturale del sistema energetico.

Secondo Calenda la Sen 2017 sarà uno strumento per tre obiettivi:

  • individuare le principali scelte strategiche in campo energetico, in connessione anche ai nuovi obiettivi europei del Clean Energy Package e traguardando obiettivi di sicurezza e economicità;
  • definire le priorità di azione e indirizzare le scelte di allocazione delle risorse nazionali;
  • gestire il ruolo chiave del settore energetico come abilitatore della crescita sostenibile del Paese;

Un primo e non secondario problema è capire che significato possa avere questa nuova strategia. Va ricordato che la “vecchia” nacque per giustificare il ritorno al nucleare e fu l’allora ministro Scajola a inserirla in un decreto legge (112/2008). Fortunatamente, dopo Fukushima e il referendum, tutto si è ridotto a slides coloratissime, che segnalavano la Sen 2013, fondata su tre pilastri: competitività, ambiente, sicurezza.

A ben guardare dal 2013 a oggi nessuno dei tre obiettivi ha fatto passi avanti perché anche se oggi si continua a ripetere che il nostro Paese ha già raggiunto gli obiettivi europei stabiliti per il 2020 (il famoso pacchetto 20-20-20), si tratta di un risultato pregresso: negli ultimi tre anni di passi avanti ne sono stati fatti pochi, anzi nel settore elettrico siamo in ritirata. Basti confrontare la quota di elettricità generata dalle rinnovabili nei primi due mesi di quest’anno con i tre anni precedenti, dal 32,9% siamo scesi al 27,4% (Fonte: Qualenergia.it). La vecchia Sen del resto metteva molta più enfasi sul progetto di fare dell’Italia un hub del gas che sullo sviluppo delle rinnovabili che era sempre citato solo unitamente al termine “sostenibile” inteso in senso economico.

L’Unione Europea ha definito nell’ottobre del 2014 una Strategia su clima ed energia che prevedeva l’obiettivo vincolante per gli Stati membri di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra nel territorio dell’Unione di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990, e di contribuire con una quota di almeno 27% di energia rinnovabile e un miglioramento del 27% dell’efficienza energetica. Ma nel 2015 i Paesi dell’Ue hanno consumato sì meno energia, ma non meno fonti fossili: gli sforzi per decarbonizzare i sistemi energetici e i trasporti sono troppo lenti. Secondo i dati Eurostat (del 20 febbraio 2017), è aumentata l’incidenza dell’importazione di combustibili fossili nell’UE che soddisfa il 73% della domanda.

Quindi, ridurre le emissioni, aumentare le rinnovabili (altrimenti il primo obiettivo risulta irraggiungibile) e consumare meno energia, ossia fare efficienza dovrebbero essere i tre pilastri della nuova SEN. Relativamente a questo terzo pilastro la Commissione europea nel “Clean Energy package”, un pacchetto di proposte pubblicato novembre 2106, ha previsto un obiettivo legalmente vincolante di risparmio energetico del 30% al 2030, con l’obbligo per gli Stati membri di produrre entro il 1° gennaio 2019 un piano nazionale integrato in materia di energia e clima per il periodo dal 2021 al 2030. Viene naturale pensare che si potrebbe evitare di scrivere una SEN, che al momento non avrebbe alcun “ancoraggio” legislativo, senza alcun passaggio parlamentare, concentrandosi invece sulla preparazione di questo piano su energia e clima.

Calenda ha però esplicitato che intende separare SEN dal Piano integrato energia e clima e di conseguenza la sua posizione rimane legata alla vecchia Sen. Obiettivo primario rimane quindi la competitività che si traduce nel problema dei costi del gas e dell’elettricità in Italia (il secondo è conseguenza del primo essendo il gas a fare il prezzo dell’elettricità in Italia). Riguardo al mix elettrico, Calenda lamenta che abbiamo più rinnovabile (in percentuale) rispetto a Francia e Germania e che questo è costato un onere che pesa sulle bollette elettriche. Un leit motiv che dura da sei anni e che sarebbe bello cessasse almeno per superare la noia.

Calenda in parlamento non ha proferito parola su come proseguire per decarbonizzare il settore energia, al contrario ha lamentato il problema di Enel che chiude centrali termoelettriche (vecchie, va precisato) e come ciò rappresenti un rischio per la sicurezza del sistema elettrico. Nei punti elencati come temi chiave della nuova Sen le rinnovabili sono state messe in contrapposizione con l’efficienza energetica nella ricerca del “mix ottimale per centrare gli obiettivi” (europei). Capitolo a sé per il gas, per la raffinazione e la logistica petrolifera, cui si aggiungono il capitolo liberalizzazione del mercato elettrico (fine della tutela) e la riforma delle regole del mercato elettrico all’ingrosso.

E’ un film già visto: è uno sguardo che non sa alzare la testa per vedere almeno un frammento di futuro ed è uno sguardo che non sa collegare l’energia all’inquinamento e al clima. Usciamo da un inverno in cui i polmoni (almeno di chi abita nella Pianura padana) hanno respirato ossidi di azoto e polveri sottili in quantità esagerata e nelle premesse della Sen non c’è nessun accenno a un possibile piano di rottamazione per i diesel più inquinanti sostenuto da una incentivazione all’auto elettrica. Nessun accenno a una possibile azione combinata per rimuovere l’eternit in cambio di fotovoltaico, o nessuna proposta per rinnovare gli impianti eolici più datati aumentando la generazione a parità di impianti e quindi senza consumo di suolo.

E non scandalizziamoci sempre e soltanto per Trump: in fondo, gli interessi delle lobby da noi si dimostrano sempre vivaci, aggressivi e ben rappresentati.

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IL G7 ENERGIA IGNORA GLI ACCORDI DI PARIGI di Alfonso Navarra

Il 43º vertice del G7, come riunione centrale dei Capi di Stato e di governo, si svolgerà al Palacongressi di Taormina in SiciliaItalia, il 26 e 27 maggio 2017. La riunione sarà guidata dal Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni. Per la quarta volta consecutiva dopo la sospensione della Russia dal G8 nel marzo 2014 il vertice si terrà nel formato G7 e non G8.

La scelta di Taormina come sede del G7 fu annunciata dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi il 4 luglio 2016. Il vertice era inizialmente programmato per svolgersi a Firenze. Tra i motivi del cambio di scelta, Renzi citò le parole di un leader internazionale in occasione di un precedente vertice che con una battuta aveva evidenziato il suo pregiudizio nei confronti della Sicilia additandola come terra di mafia e affermò che quelle parole lo avevano convinto a fissare il G7 proprio in Sicilia. La scelta della Sicilia è stata inoltre motivata dal Governo con la volontà di tener viva l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e dei leader sulla vicenda delle migrazioni e dei profughi.

Sono attesi a Taormina per la partecipazione: per l’ Italia: Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio; per il Canada: Justin Trudeau, Primo ministro; per il Giappone: Shinzō Abe, Primo Ministro; per la Francia il Presidente Hollande; per la Germania: la cancelliera Angela Merkel; per il Regno Unito: Theresa May, Primo Ministro; per gli Stati Uniti, il neopresidente Donald Trump.

Partecipano anche, per l’Unione Europea: Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo; e Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione UE.


Il summit centrale a Taormina è accompagnato da vertici di settore, secondo il seguente calendario:

Data

Città ospitante

Summit

30-31 marzo 2017 Firenze G7 Ministri della Cultura
9-10 aprile 2017 Roma G7 Ministri dell’Energia
10-11 aprile 2017 Lucca G7 Ministri degli Esteri
11-13 maggio 2017 Bari G7 Ministri delle Finanze
10-11 giugno 2017 Bologna G7 Ministri dell’Ambiente
21-22 giugno 2017 Cagliari G7 Ministri dei Trasporti
26-27 settembre 2017 Torino G7 Ministri dell’Industria
28-29 settembre 2017 Torino G7 Ministri di Scienza e Tecnologia
30 settembre-1 ottobre 2017 Torino G7 Ministri del Lavoro
14-15 ottobre 2017 Bergamo G7 Ministri dell’Agricoltura
5-6 novembre 2017 Milano G7 Ministri della Salute

A Roma il 9-10 aprile si svolgerà il vertice di settore dei Ministri dell’Energia la cui agenda prevede temi quali le nuove rotte del gas e le pipelines per assicurarsi la diversificazione degli approvigionamenti (come la Tap finita nel mirino del Tar del Lazio o il nuovo progetto di gasdotto Eastmed per unire Israele all’Italia entro il 2025), ma anche la cybersicurezza delle reti elettriche e la corsa all’efficienza energetica. Saranno testate le nuove posizioni dell’amministrazione Trump che ha rilanciato il carbone con l’intenzione di “rottamare” le politiche ambientali del predecessore Obama. Forse non è un caso che nel programma ufficiale riportato dal sito – in cui non è indicata la sede dell’incontro quindi presumiamo che sia la sede del Ministero in via Molise, 2 – siano assenti sia l’accordo globale sul clima stipulato a Parigi sia il tema conseguente dello sviluppo delle fonti rinnovabili.

Il programma prevede l’avvio dei lavori alle 19 di domenica 9 aprile con il saluto del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e una cena di lavoro. La mattinata successiva si articolerà con varie sessioni di lavoro e si concluderà con la conferenza stampa di chiusura nel primo pomeriggio durante la quale sarà diffusa la dichiarazione finale congiunta con le azioni che si vogliono promuovere. Nel pomeriggio di domenica è anche previsto un evento organizzato dalla Fondazione Enel dedicato all’accesso all’energia in Africa al Maxxi di Roma.

Un aspetto che rende il vertice interessante è che sarà la prima occasione di confronto con la nuova amministrazione Usa che sta assumendo posizioni diverse dal recente passato di Obama sui temi energetici:  è prevista infatti la partecipazione del nuovo segretario all’Energia Rick Perry. E’ forte l’interesse a capire quanto da parte USA si intenda cambiare rotta e con che consequenzialità, visto che il nuovo presidente Usa Donald Trump proprio nei giorni scorsi ha firmato un ordine esecutivo per rivedere le norme per la lotta ai cambiamenti climatici: di fatto si va a ribaltare la maggior parte delle politiche a difesa dell’ambiente portate avanti dal suo predecessore. «Con me si mette fine alla guerra al carbone – ha annunciato Trump – Rimetteremo i minatori al lavoro».

E l’Italia? Lo scorso giugno il MISE, ministero dello Sviluppo economico, ha presentato la relazione “La situazione energetica nazionale nel 2015″ volta al monitoraggio e all’aggiornamento della Strategia energetica nazionale (SEN). In quell’occasione i dati hanno riportato che, a livello mondiale, l’offerta di greggio e gas ha esercitato una pressione al ribasso sui prezzi. È proseguita la diffusione delle fonti rinnovabili con un contributo rilevante delle economie emergenti, in particolare della Cina e per la prima volta dopo 10 anni si è ridotto il commercio mondiale di carbone. In Italia, pur permanendo una significativa dipendenza dalle fonti estere, si starebbe assistendo a una transizione verso un sistema energetico più efficiente, autonomo e a minor intensità di carbonio.

Al G7 Energia quindi verrà presentata la nuova SEN che, come specificato dal ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, si declinerà su tre assi: competitività, ambiente e sicurezza. In audizione in Commissione Ambiente alla Camera proprio sulla revisione della Sen, Calenda ha precisato che la nuova Strategia, basandosi su questi tre assi, avrà come conseguenza una crescita economica sostenibile. Un quadro stabile quindi che ha l’obiettivo di favorire gli investimenti e le attività di ricerca e sviluppo in tecnologie innovative. Altro obiettivo è quello di ridurre il gap di costo dell’energia, allineandosi ai prezzi dell’Unione europea, in vista di una migliore competitività italiana. Per le questioni ambientali, Calenda ha anche affermato che si vogliono “raggiungere gli obiettivi ambientali clima-energia al 2010 e al 2030, supportando la mobilità alternativa”.

(Per una analisi critica della SEN si veda l’articolo di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli apparso anche sul blog del “Fatto quotidiano”).

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L’America di Trump recederà dall’accordo sul clima? di Alfonso Navarra

Il nuovo presidente USA Donald Trump, prima e dopo la sua elezione, ha sempre dichiarato pubblicamente che l’accordo globale sul clima stipulato a Parigi, a suo parere, era una “boiata pazzesca”, o giù di lì, nel suo tranciante linguaggio twitteriano. Questo in conseguenza del suo scetticismo sul riscaldamento climatico.

A pochi mesi dal suo insediamento possiamo chiederci: procederà al recesso con la medesima decisione che ha mostrato sulla promessa riguardo al muro con il Messico?

Parrebbe avere imboccato concretamente la strada, visto che  il Nostro ha da poco firmato un ordine esecutivo che cancella parte delle iniziative ambientali adottate dall’amministrazione Obama.

Il documento si chiama “Energy Independence” e conferisce mandato all’Agenzia per la protezione dell’ambiente di procedere per il ritiro e la riformulazione del Clean Power Plan di Obama, diventato legge nell’agosto 2015. Si tratta di un piano nazionale, quello di Obama, volto a ridurre le emissioni di gas serra prodotte dalle centrali elettriche alimentate a carbone. Il piano stanzia alcuni miliardi di dollari di investimenti per finanziare lo sviluppo e la diffusione di fonti di energia pulita (fotovoltaica ed eolica), ridurre il ricorso a fonti di energia responsabili dell’emissione di gas serra e favorire la chiusura di centrali elettriche a carbone. Il piano di Obama è stato pensato per ridurre – entro il 2030 – i livelli di emissioni di gas serra del 32 per cento rispetto a quelli del 2005.

Le posizioni di Trump sul cambiamento climatico e sulle politiche di protezione dell’ambiente potrebbero avere importanti conseguenze anche sull’accordo sul clima di Parigi, concluso nel dicembre 2015 durante la Conferenza mondiale sul clima (nota come Cop21). Si teme, appunto, che Trump possa decidere l’esplicito ritiro degli Stati Uniti dall’accordo della Cop21.

Con l’ordine esecuttivo citato, gli accordi di Parigi rischiano di diventare carta straccia e di perdere ogni effettività. Anche se l’accordo Cop21 non è citato nel provvedimento gli Stati Uniti, tra i principali colpevoli dell’emissione di gas serra, potrebbero disattendere il raggiungimento dell’obiettivo concordato a Parigi nel 2015 con il risultato che non si arriverà a mitigare l’aumento delle temperature globali del Pianeta, ci sarà un’impennata delle emissioni di anidride carbonica e si finirà con il compromettere l’ecosistema globale e quindi, senza esagerare, la sopravvivenza umana.

Il motivo che ha portato Trump a boicottare il piano ecologico di Obama è quello, secondo il presidente, di promuovere l’indipendenza energetica degli Stati Uniti per rilanciare l’industria nazionale del carbone e creare nuovi posti di lavoro in un settore “tradizionale” dell’economia americana. Tuttavia, l’interpretazione prevalente data da alcuni autorevoli economisti è che le politiche di Trump potrebbero non essere adeguate o sufficienti per raggiungere questi obiettivi: in parte perché gli Stati Uniti dipendono già dal carbone e dal gas naturale nazionale, in parte perché i vecchi impianti in cui viene impiegato il carbone useranno in futuro un numero sempre maggiore di macchine e sempre minore di uomini.

L’amministrazione Trump potrebbe incontrare, sul provvedimento approvato, l’opposizione dei singoli Stati. Ad esempio, lo stato di New York e la California hanno già detto che si opporranno alla nuova politica ambientale, mentre quasi 30 Stati hanno adottato delle leggi per migrare gran parte della loro produzione di elettricità dall’uso di combustibili fossili a quello di fonti energetiche più pulite.

Sulla politica estera e della difesa abbiamo già visto che l’establishment ha fatto fare retromarcia a Trump imponendo l’esclusione di Steve Bannon (ideologo dell’ultradestra) dal Consiglio di Sicurezza Nazionale. Poi abbiamo appena assistito alla “punizione” di Assad, alleato di Putin, con i raid aerei della notte del 6 aprile. Non è allora da escludere che anche nel settore energetico ci saranno pressioni che, se non renderanno Trump un fervente ambientalista,  faranno però rientrare in binari più ordinari e razionali (il che non significa sempre giusti e accettabili, sia chiaro) il nostro imprevedibile demagogo…