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Il parlamento è connivente con il commercio di armi?

di Laura Tussi

Che fine ha fatto la legge per il controllo sull’esportazione di armi?  La legge 185 sull’export di armi è sotto attacco.

Nel 2021 l’Italia ha revocato sei licenze per la fornitura di armi e missili ad Arabia Saudita e Emirati arabi uniti.

La reazione del settore della difesa non si è fatta attendere, mettendo nel mirino la norma della legge 185/1990 “la revoca delle licenze non dovrebbe essere l’eccezione ma la regola” spiega rete pace e disarmo.

La legge del 1990 prevede che siano vietate la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione, il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione e la cessione della relativa tecnologia.

Un excursus nel passato

E’ dal 1984 che il comitato contro i mercanti di morte chiede maggiori controlli.

Nel 1987 diversi coraggiosi magistrati hanno tolto il coperchio che copriva questi traffici tutti poco conosciuti e molto illeciti. Grazie alle inchieste giudiziarie, l’opinione pubblica ha conosciuto il significato di triangolazione. Ossia come ci si poteva arricchire con la guerra Iran Iraq,  con la spregiudicatezza di molte industrie belliche e la connivenza di troppi industriali statali.

È sempre nel 1987 che si è iniziato a distribuire in parlamento il testo di una legge che controllasse il commercio di armamenti, la prima legge della Repubblica italiana.

Il governo che inizialmente aveva proposto un suo disegno di legge più orientato a promuovere le esportazioni che a limitarle, ha cambiato atteggiamento. Spinto dai parlamentari più pacifisti, si è aperto un dialogo con le proposte di maggior controllo fatte dall’opposizione.

Però avendo scelto la strada giusta, il governo ha ingranato la marcia più lenta. Di 31 articoli che formavano la legge, solo uno e mezzo sono approvati in sede legislativa dalla commissione parlamentare appositamente costituita.

Le industrie belliche si attivano

Intanto, fuori dal palazzo, le industrie non sono rimaste ad aspettare. Dopo il calo delle esportazioni di armi, verificatosi a partire dal 1984, cercano di lanciarsi con i finanziamenti statali. Il progetto di una nuova legge straordinaria per l’acquisto di nuove armi che sta nel cassetto degli Stati maggiori, sembra fatta più per rilanciare le industrie belliche che per affrontare la nuova fase di disarmo. Il secondo obiettivo delle industrie belliche è quello di fare un salto tecnologico che le renda più competitive sui mercati internazionali. Queste industrie tendono ad accollare i costi del salto tecnologico allo Stato. Le spese per la ricerca e lo sviluppo militare sono in continuo aumento negli ultimi anni.

La nonviolenza contro i mercanti di morte

Ancora una volta i mercanti di morte si ritrovano a fare affari. Nel 1989 a Genova si inaugura la settima edizione della Mostra navale Italia, la principale esposizione di sistemi d’arma nel nostro paese. Per entrare alla Mostra, i mercanti di morte dovranno scavalcare migliaia di pacifisti seduti di fronte ai cancelli.

L’opposizione nonviolenta è organizzata dal comitato contro la mostra insieme a decine di organizzazioni e associazioni laiche, sindacali, religiose, culturali, insieme a partiti e movimenti giovanili e ad associazioni per la pace. Il pacifismo in Liguria era impegnato da anni perché la città si rifiutasse di operare e di ospitare la filiera e la fiera delle armi che finiscono vendute innanzitutto al terzo mondo e persino ai paesi belligeranti.

La discussione è riuscita a coinvolgere anche le amministrazioni locali e ha provocato polemiche a non finire. Ma evidentemente le ragioni degli organizzatori della mostra sono state più convincenti dell’appello rivolto dai pacifisti alla popolazione locale.

Invito a non legittimare le armi e la violenza

Il comitato contro la mostra ha comunque invitato le autorità a non legittimare con la propria presenza l’inaugurazione della Mostra di armi: ci sarà qualcuno che vorrà almeno con questo piccolo gesto testimoniare di aver ascoltato le voci di Pace? L’appuntamento per i pacifisti di tutti Italia dunque era a Genova insieme per dire con la forza della nonviolenza NO alla mostra e SI al disarmo e alla riconversione dell’industria bellica.

L’attualità del boicottaggio degli armamenti

Attualmente vediamo ancora la Liguria al centro del ciclone mediatico perché il Movimento dei portuali di Genova e La Spezia sono impegnati a boicottare il traffico di armi e a rifiutarsi di caricare ordigni militari di distruzione sulle navi che salpano dai porti.

Un appello al mondo del pacifismo perché è molto triste tutto ciò che succede in questa martoriata madre terra. Gli eventi non volgono al meglio.

Una cosa rattrista molto ed è il fatto che tra noi pacifisti non vi sia Unione di intenti. Troppe divisioni e per questo i potenti possono fare oramai tutto quello che vogliono.

Per i poteri forti la guerra ad oltranza anche con la possibilità dell’utilizzo di armi di distruzione di massa nucleari è la via per la Pace. Diamo il giusto senso alle parole. La guerra non può essere pace e la pace deve sussistere perché non è guerra.

Dobbiamo rifondarci come umanità e dobbiamo farlo subito: non vi è più tempo.

Superiamo i problemi che ci dividono e torniamo assieme a lottare per la Pace, la Pace che hanno tentato di donare all’intera umanità i nostri padri Partigiani.

Facciamolo per loro, per noi e per le future generazioni.

Stiamo chiedendo accoratamente una tregua natalizia di pace per una guerra tra Ucraina e Russia e Nato che sta seminando morte e disperazione.

Chiediamo al mondo del pacifismo una tregua anche tra di noi in modo da essere più efficaci e soprattutto credibili nel contrastare le guerre che stanno avvenendo.

Un invito a vedere questo meraviglioso video “I bambini della Pace”.

Impariamo dai bambini che sono la speranza per un mondo senza guerre.

https://youtube.com/watch?v=besY2_BzS5g%3Ffeature%3Doembed

IN FOTO: I disegni della mia mamma Angela Belluschi che raccontava sempre le avventure incredibili e a rischio di morte di mio nonno Luigi sabotatore dell’industria bellica, come operaio alla Breda di Sesto San Giovanni e Resistente durante il ventennio fascista e contro il regime nazifascista. Mamma ha realizzato vari disegni nei limiti dell’età e della grave patologia. Alcuni disegni sono pubblicati nel mio libro Resistenza e Nonviolenza creativa.

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L’obiezione all’industria bellica

Laura Tussi

Il rifiuto della guerra è il filo che lega tante storie di singoli e di gruppi di lavoratori. L’obiezione professionale all’industria bellica è fatta di rallentamenti, sabotaggi, scioperi ma anche di progetti per la riconversione dell’industria bellica, osservatori sull’industria militare, proposte per la difesa civile nonviolenta. Abbiamo bisogno di recuperare la storia di chi, in tanti modi diversi, si è opposto e si oppone a eserciti, naia e guerre

Tratta da Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali

Mio nonno materno Luigi Belluschi è un esempio di obiezione professionale all’industria bellica. Durante il ventennio fascista e sotto l’occupazione nazifascista ha lavorato come operaio specializzato, ossia gruista sugli altiforni, presso la Breda di Sesto San Giovanni. Lavorava in produzione bellica per il regime nazifascista, ma da varie fonti, come l’archivio Aned di Sesto San Giovanni, è riemerso che veniva licenziato e in seguito riassunto più volte. Era infatti un sabotatore: rallentava la produzione bellica oltre a sabotare i tralicci del telefono con i suoi compagni. I fascisti venivano a cercarlo e mia nonna rispondeva che era in “produzione bellica”. Da varie fonti, da mia madre e da mio zio, risulta che non l’abbiano mai deportato nell’oltralpe e nei lager nazifascisti perché serviva a produrre le armi. Un lavoro estremamente faticoso e logorante sugli altiforni: lo hanno schiavizzato in Italia. Non lo hanno mai deportato, sebbene fosse comunista e avesse partecipato a Milano agli scioperi del 1943 e 1944. Era del 1904. Non apparteneva a formazioni partigiane, era un “cane sciolto”. Un Resistente e ha contribuito alla Resistenza antifascista.

Esempi di obiezione all’industria bellica

Caso significativo di obiezione all’industria bellica nel nostro Paese è quello degli 805 lavoratori delle officine Moncenisio di Condove vicino a Torino che il 24 settembre 1970 approvano all’unanimità in assemblea una mozione contro la produzione di armi dell’azienda. Il documento dice:

“I lavoratori delle officine Moncenisio, considerando che il problema della pace e del disarmo li chiama in causa come lavoratori coscienti e responsabili e che la pace è supremo interesse e massimo bene del genere umano, preoccupati dei conflitti armati che tuttora lacerano il mondo, diffidano la direzione della loro officina dall’assumere commesse di armi, proiettili, siluri o altro materiale destinato alla preparazione o all’esercizio della violenza armata di cui non possono e non vogliono farsi complici. Chiedono alle organizzazioni sindacali di appoggiare la loro strategia di pace. Invitano caldamente i lavoratori italiani in tutto il mondo a seguire il loro esempio di coerenti e attivi costruttori di pace”.

Un’iniziativa che ebbe larga eco e contribuì a dare nuovi impulsi alle lotte per le conversioni a fini pacifici delle industrie belliche.

I lavoratori pacifisti obiettori alla produzione di armi

Noti sono poi i casi di singoli lavoratori che si sono rifiutati di produrre armi: Maurizio Saggioro si rifiuta di produrre componenti per armi presso la Metalli Pressati Rinaldi di Bollate vicino a Milano. Nel gennaio 1981 chiede il trasferimento ad altro reparto, ma viene licenziato.

Nel 1983 Gianluigi Previtali si dimette dall’Aermacchi di Varese contro la produzione di armamenti.

Negli ultimi anni, i portuali del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (Calp) di Genova si sono più volte rifiutati di caricare le navi di armi.

E ancora dal comitato di riconversione RWM – azienda che produce ordigni bellici e bombe – in Sardegna è nata l’idea di ridare speranza al territorio attraverso un modello di impresa sostenibile, con un’economia pulita e posti di lavoro, dove la pace si mette in rete. Come l’operaio della RWM Giorgio Isulu che circa un anno fa ha iniziato il suo nuovo lavoro nell’azienda agricola “l’Agrumeto”.

L’antagonismo sindacale all’interno dell’Aermacchi di Varese

Intorno agli anni Ottanta del 1.900 nacque, nel contesto della Aermacchi di Varese, un gruppo di attivisti antimilitaristi grazie al sostegno della FLM in un primo momento e della Fim – Cisl in un secondo momento; un gruppo informale che promosse collette di solidarietà con popoli e movimenti vittime del fuoco delle armi italiane attraverso tecniche di conflittualità non convenzionali come scioperi, digiuni e collettivi di fabbrica per giungere nel 1986 alla disobbedienza civile attraverso l’aperta adesione di alcuni suoi componenti all’obiezione di coscienza congiunta all’uso del digiuno di cinque giorni contro gli euromissili, contro la corsa al riarmo e per denunciare nel 1988 l’Aermacchi in quanto industria violatrice degli embarghi Onu contro Iran e Iraq.


Una proposta di legge per la riconversione dell’industria bellica

La reazione nel gennaio del 1991 del direttivo aziendale fu largamente prevedibile: l’attivazione della cassa integrazione della cellula di lavoratori antimilitaristi. Espulsioni che crearono condizioni per la nascita nel 1991 del comitato cassintegrati Aermacchi per la pace e il diritto al lavoro, il quale grazie ai preziosi contributi del MIR, della Cisl, delle Acli e del comitato contro la guerra del Golfo di Busto Arsizio riuscì a portare le proprie lagnanze fino alla 21ª commissione del lavoro del parlamento, attraverso una struttura a rete. E nel 1993 a formulare una proposta di legge regionale per la promozione della riconversione dell’industria bellica formalmente presentata da una coalizione politica trasversale di centro sinistra.

Anche a seguito di questa iniziativa, prese avvio l’osservatorio sull’industria militare. A distanza di breve tempo per evitare ulteriore incremento di licenziamenti, Aermacchi riuscì a esercitare una pressione uguale per intensità e contraria per la finalità sulle istituzioni politiche sindacali volte a favorire l’approvazione in tempi brevi del nuovo modello di difesa. L’operazione raggiunse l’auspicato obiettivo soprattutto grazie a pezzi di sindacato di FIM, Fiom e Uilm.

In ottemperanza al principio costituzionale del ripudio della guerra di cui all’art.11 e al fine di favorire l’adempimento dei doveri inderogabili di  difesa della patria di cui all’art. 52, per Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta opposta al Nuovo Modello di Difesa si intende uno strumento di difesa che non comporta l’uso delle armi e alternativo a quello militare.

L’alternativa nonviolenta al nuovo modello di difesa

In primo luogo, sotto il profilo ideologico, l’interpretazione data dagli attivisti contrari al nuovo modello di difesa è di tipo ecopacifista ed è suffragata dalle analisi dei periodici Giano, il manifesto, Metafora verde, dalla rivista Capitiniana Azione nonviolenta e infine dagli studi di Allegretti editi dall’edizione cultura della pace.

Quanto alle istituzioni politico culturali nel cui ambito si muovono gli attivisti, queste sono la FNM – Cisl, IRES e la rete di formazione non violenta e l’IPRI, mentre gli strumenti di comunicazione di massa attraverso i quali hanno promosso una strategia di controinformazione antimilitarista sono stati: Alfazeta, periodico ufficiale della CISL, Radio Popolare e Avvenimenti. In secondo luogo l’attivismo con Nanni Salio segretario dell’IPRI, propone un’alternativa radicale seguendo le indicazioni di Galtung e Sharp al modello di difesa tradizionale che agevolmente possiamo riassumere nel modo seguente: l’attuazione a livello politico della nonviolenza non solo costituisce un reale pericolo per il totalitarismo dell’est ma anche e soprattutto per il capitalismo occidentale.


Il movimento per la pace e la nonviolenza

Una reale comprensione della nonviolenza ci consentirà di comprendere la natura profondamente sovversiva che la connota; infatti è il movimento per la pace che si fa portavoce della nonviolenza e ha come suo principale scopo quello di costruire una società civile profondamente diversa da quella attuale perché in grado di risolvere le varie tipologie di conflitti in modo nonviolento. Contrariamente ai modelli di difesa tradizionali, adattare a livello politico la difesa nonviolenta, equivale a conferire alla società civile la possibilità di risolvere i conflitti dimostrando in tal modo quanto profondamente legata sia alla nonviolenza la democrazia partecipativa.

Proprio per queste motivazioni è opportuno che il modello dell’attivismo sia esteso e rafforzato così come è opportuno democratizzare l’ONU istituendo nel suo contesto forze di intervento nonviolento.

Un esempio in questa direzione ci viene offerta dalla presenza delle Peace Building International in zone di guerra come il Guatemala, lo Sri Lanka o delle organizzazioni come i volontari della pace.


Bibliografia
– Pagani Elio, Alcune riflessioni sull’obiezione professionale alla produzione militare, su Approfondimenti – Mosaico di pace online 
Bibliografia di approfondimento
– Bobbio Norberto, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 2009
– Mastrolilli Paolo, Lo specchio del mondo. Le ragioni della crisi dell’ONU, Laterza, Roma 2005
– Mini Fabio, Perché siamo così ipocriti sulla guerra? Un generale della Nato racconta, Chiarelettere, Milano 2012
– Pugliese Francesco, Abbasso la guerra. Persone e movimenti per la pace dall’800 a oggi, Grafiche futura, Mattarello – Trento
Fonti analitiche
– Gagliano Giuseppe, Studi politico-strategici. La conflittualità non convenzionale nel contesto delle ideologie e dei movimenti antagonisti del novecento, Vol. II, edizioni New Press – Como, I Edizione 2007
– La scelta dell’obiezione di coscienza. Tutelare chi si oppone alle armi. Avvenire 9 Dicembre 2022, Primo Piano.

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PeaceLink: liberiamoci dalla guerra ovunque

Intervista a Rossana De Simone di PeaceLink

PeaceLink: liberiamoci dalla guerra ovunque

Dal collettivo studentesco alla fabbrica. Rossana De Simone racconta la sua esperienza di giovane lavoratrice e delegata sindacale

Un convegno con Rossana De Simone

Intervista di Laura Tussi a Rossana De Simone di PeaceLink 

Dal collettivo studentesco alla fabbrica. Rossana De Simone racconta la sua esperienza di giovane lavoratrice e delegata sindacale

 

Perchè ricordi il 1980 come un anno terribile?

Per la prima volta nel 1980 varco il cancello di una fabbrica. Fino ad allora avevo partecipato  come collettivo studentesco alle lotte operaie per il contratto o contro i licenziamenti.

Ricordo il 1980 come un anno terribile.

Il movimento  giovanile che aveva riempito le piazze e le strade veniva brutalmente represso, il movimento operaio avrebbe vissuto la più cocente sconfitta alla Fiat, e anche London Calling, quel favoloso disco cardine del punk inglese, sarebbe diventato il documento di una triste sconfitta politica. I Clash cantavano “Londra chiama” nel momento del trionfo del partito conservatore di  Margaret Thatcher alludendo, in tutto l’LP, al disastro nucleare, inondazioni, abusi di droghe, scontri con la polizia, quartieri disagiati, giovani e disoccupati arrabbiati.

Nelle fabbriche si apre un forte dibattito sulla coerenza di una classe operaia produttrice di armi e al contempo propugnatrice di solidarietà verso i paesi le cui popolazioni venivano represse da queste stesse armi.

Quando sono entrata in fabbrica, esisteva ancora la Federazione lavoratori metalmeccanici (FLM) e al suo interno brillava nella sua particolarità, un gruppo di lavoro impegnato a livello nazionale in attività di ricerca sulla produzione, esportazione e diversificazione dell’industria bellica. Il suo più alto rappresentante,  Alberto Tridente, allora Segretario Nazionale F.L.M., nel 1979 presentava il libro “Corsa agli armamenti e uso alternativo delle risorse”. Nel volume si auspicava una forte presa di coscienza da parte delle forze politiche e del movimento operaio circa la natura e dimensioni del problema del disarmo a livello mondiale. Il moltiplicarsi dei conflitti locali e l’aumento delle spese militari, dovevano far sì che nelle fabbriche si aprisse un forte dibattito sulla coerenza di una classe operaia produttrice di armi da una parte, e dall’altra propugnatrice di solidarietà e collaborazione verso i paesi le cui popolazioni o minoranze etniche venivano represse da queste stesse armi. L’azienda di cui parlo è infatti l’Aermacchi, un tempo privata oggi di Leonardo (ex Finmeccanica), gruppo a partecipazione statale.

Racconta di cosa è diventata la Fabbrica di morte Aermacchi, oggi Leonardo e ex Finmeccanica

Leonardo è quell’azienda di cui si declama da una parte l’eccellenza tecnologica riconosciuta a livello internazionale e la capacità di fare sistema in una Italia in via di deindustrializzazione, dall’altra i pericoli di tagli finanziari e occupazionali e il rischio di una perdita di prestigio sul mercato e sulla politica estera.

Partecipasti con il consiglio di fabbrica ad una manifestazione a Torino in un clima pesantissimo

Come ho detto il 1980 viene ricordato come l’anno della sconfitta della classe operaia Fiat: Umberto Agnelli in una intervista aveva affermato che la soluzione ai problemi Fiat stava nella svalutazione della lira e nei licenziamenti di massa. Dopo mesi di trattative inconcludenti, scioperi, cortei, presidi dei cancelli, blocchi delle fabbriche, il 14 ottobre capi, impiegati, dirigenti, intermedi, operai crumiri, padroncini dell’indotto, dietro lo striscione “maggioranza laboriosa” e lo “Vogliamo lavorare in pace”, organizzano la manifestazione definita dei 40mila. La magistratura emette addirittura  in serata un’ordinanza alle forze dell’ordine affinché intervengano per garantire l’ingresso in azienda a quei “lavoratori che manifestino tale intenzione”.

Partecipo con il consiglio di fabbrica ad una manifestazione a Torino in un clima pesantissimo dove tutti ormai sapevano che lì a poco il sindacato avrebbe firmato (esattamente il 15 ottobre 1980) in tutta fretta un accordo inaccettabile e non voluto. In sostanza si lasciava alla FIAT tutto ciò che voleva: cassa integrazione a zero ore, cassa a rotazione e avviamento di processi di mobilità extraziendali.

Aermacchi e altre aziende del settore difesa avrebbero subito la crisi in termini così devastanti?

Aermacchi e altre aziende del settore difesa non avrebbero subito la crisi in termini così devastanti. Più tardi queste aziende avrebbero partecipato alla trasformazione del sistema industriale italiano ma usufruendo di leggi promozionali, oltre quelle ordinarie del Ministero, e ottenendo non solo finanziamenti per la ricerca e sviluppo dei programmi nazionali e internazionali, ma anche per l’ammodernamento di materiali, impianti, macchinari, ed apparecchiature ad alta tecnologia.

Siamo negli anni ’80, in piena guerra fredda…

E’ il periodo di una nuova guerra fredda  e della  decisione  di  installare  i  missili  nucleari  americani  a  medio  raggio in cinque paesi europei della Nato, Italia compresa. Decisione che riporterà il tema riarmo nucleare/disarmo al centro  del dibattito nel paese e l’aumento delle spese militari che nel 1988 raggiungerà i 43mila miliardi di lire con una crescita media del 6% l’anno. A livello sociale nascerà il fenomeno dello yuppismo, cioè di quei giovani che hanno come obiettivo fare un mucchio di soldi attraverso l’affermazione economica individuale, che adottano uno stile di vita consumista, ostentando la volontà del successo, sentendosi realizzati nell’economia capitalista.

Il sindacato entrava in una grande crisi da cui non è ancora uscito

Il decentramento produttivo, che ha cambiato la struttura di un sistema industriale che poggiava sulla grande fabbrica, promuoveva la creazione di piccole e medie imprese incentivando il lavoro autonomo. Questo nuovo stato di cose, con tanti piccoli padroncini ex operai subordinati alla fabbrica madre o individui che rifuggono il lavoro in fabbrica per mettersi in proprio, porterà il sindacato in una grande crisi da cui non è ancora uscito. Il sindacato aveva ormai assunto il ruolo di mediatore degli interessi in gioco. Di conseguenza la sua preoccupazione maggiore era diventata quella di mantenere intatta la sua forza a discapito della democrazia e della critica allo stato di cose esistenti: gli scioperi diventano simbolici, il negoziato sempre più accentrato, le rivendicazioni vengono elaborate nelle confederazioni senza una reale possibilità di controllo da parte della base.

Che ruolo aveva la critica alla produzione militare?

Nascerà in opposizione a queste  politiche il movimento degli “autoconvocati” che in seguito organizzerà i sindacati di base a cui aderiranno anche alcuni lavoratori Aermacchi. Per me  significherà la restituzione della tessera sindacale (nel frattempo il sindacato si era diviso nelle sue componenti tradizionali FIM, FIOM e UILM) per dare l’avvio di un sindacato di base prima di uscire del tutto dalla fabbrica. Per me la critica alla produzione militare doveva essere portata avanti insieme a quella di un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento dell’uomo e della natura.

Altri manterranno la loro tessera pur continuando a promuovere iniziative rivolte alla riconversione dell’azienda in industria bellica. Tema ormai eliminato dalle piattaforme dei sindacati confederali.                        Nasce  il Comitato per la democrazia e la solidarietà che diverrà in seguito Comitato cassaintegrati per la pace. Sembrava fosse possibile, per i lavoratori, riprendere in mano la possibilità di decidere la propria condizione e con loro anche di tutti coloro insofferenti verso un clima che riteneva ormai impossibile modificare un modello predatorio delle risorse di un territorio e delle comunità che lo abitano.

La caduta del muro di Berlino nel 1989, la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica nel 1991 quali conseguenze hanno provocato?

Abbandonare la critica di un modello di sviluppo basato sulla sfruttamento, ha significato non capire che gli eventi intervenuti alla fine degli anni ottanta non avrebbero portato ad un mondo più giusto ed uguale. La caduta del muro di Berlino nel 1989, la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica nel 1991 ha prodotto la fine della guerra fredda e dunque una riduzione delle spese in armamenti.  Se in Italia tra il 1989 e il 1995 c’è stata una riduzione delle spese militari di circa il 12% che scendono a 37mila miliardi, questo non ha automaticamente portato ad una divisione egualitaria della ricchezza risparmiata, piuttosto sono aumentati conflitti locali e fenomeni di corruzione di lobbisti e categorie avvantaggiate.

Tu Rossana e altri compagni di lotta avete fatto pubblica dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari.

Quello che è accaduto in Aermacchi è scritto nel libro “Nuovo ordine militare internazionale: Strategie, costi, alternative” del 1993 in cui si raccontano tutte le iniziative intraprese dal nostro gruppo sino alla espulsione dalla fabbrica: “Occorreva insomma riconfermare i contenuti di una battaglia decennale, intensificatasi nei 6 mesi precedenti l’espulsione”. Nel 1990 erano state approvate, in una assemblea generale, le motivazioni della legge 185/90 che avrebbe  regolato in maniera restrittiva l’export di armi nel mondo.  Nel marzo del 1988 Elio Pagani, storico portavoce insieme a Marco Tamborini dei temi del disarmo, denuncia in un’intervista a Famiglia Cristiana la violazione, da parte di Aermacchi, degli embarghi ONU del 1972 e del 1977 concernenti l’esportazione di armi al Sudafrica, nonché i rapporti commerciali da essa intrattenuta nei confronti sia dell’Iran che dell’Iraq nonostante l’imperversare della guerra tra i due paesi.  Nel 1986 avevano già fatto, insieme ad altri, pubblica dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari. Ma era questo momento di  grande crisi dell’industria bellica, intervenuto alla fine degli  anni novanta, che si poteva supporre fosse possibile cominciare a sperimentare progetti di diversificazione/riconversione industriale.

Voi cominciavate a supporre fosse possibile sperimentare progetti di diversificazione e riconversione industriale?

Tuttavia, come già accaduto  dentro la Oto Melara, anche il tentativo dei lavoratori Aermacchi fallisce grazie alle lobby politico-sindacali-militari.  Noi ci opponevamo fermamente alla richiesta di finanziamenti statali destinati all’addestratore militare PTS2000 (diverrà 346) e ai 510 miliardi a favore del programma AMX ed EFA, contrapponendo un pacchetto di proposte alternative al massacro occupazionale finalizzato alla sola razionalizzazione della fabbrica. Nei nostri confronti però iniziò un vergognoso boicottaggio attraverso l’espropriazione della possibilità di parlare in assemblea  e con il rifiuto della consultazione dei lavoratori sulle proposte alternative.

In Italia, sia a livello politico sia sindacale, si affermava la teoria della supremazia della tecnologia bellica e della sua ricaduta nei settori civili, e si approvava il “nuovo  modello  di  difesa” che avrebbe disegnato le nuove capacità militari per realizzare interventi militari all’estero. Il risultato è stato il respingimento del programma europeo Konver  che avrebbe finanziato la riconversione bellica di aziende in profonda crisi.

Come prosegue la Vostra lotta fuori dalla fabbrica?

La nostra lotta fuori dalla fabbrica avrebbe poi permesso la creazione di una Agenzia per la riconversione dell’industria bellica nel 1994 (chiusa in seguito dalla giunta Formigoni), non senza prima essere diventati, con l’installazione di una roulotte in Piazza del Podestà a Varese il 16 gennaio 1991, la notte in cui iniziò la prima guerra del Golfo, un punto di riferimento dell’intero movimento della città e della provincia contro la guerra. Dopo di questo nelle fabbriche è sceso il buio sulla domanda: quale produzione? cosa e come vogliamo produrre per vivere in un mondo in cui tutti possono vivere senza essere sfruttati nel rispetto della natura?