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La nuova Nuclear Posture di Trump aggrava i rischi di guerra atomica

Uno scoop dell’Huffington Post diffonde i contenuti di un draft riservato

15.01.2018 Alfonso Navarra – portavoce dei Disarmisti esigenti

 

Il nuovo presidente USA Donald Trump, il cui isolazionismo propagandistico fino a qualche mese fa veniva presentato da molti nello stesso ambiente No-war come una specie di criptopacifismo (ricordiamo che la sua visita a Roma, nel maggio 2016, fu contestata da una “manifestazione” di sole tre persone anche per questo motivo), sta agendo invece in piena coerenza con una retorica sempre sbandierata di forza e “virilità” militariste. L’America di nuovo grande magari ha da barricarsi dietro alte mura, possibilmente a spese altrui, ma difendendo i portoni con fuciloni “atomici” – e convenzionali – ben spianati, e questa trucidità difensiva da cow-boy dei vecchi western fu gridata da subito, senza equivoci, nelle piazze della campagna elettorale, incluse quelle telematiche!

Dall’Huffington post sono filtrate indiscrezioni sulla Nuclear Posture Review che sarà varata sotto la responsabilità del presidente Trump : vi si può leggere la bozza finale del documento che la sua amministrazione adotterà a febbraio. Il commento è di Ashley Feinberg: “He wants a lot more nukes.

(Si vada su: https://www.huffingtonpost.com/entry/trump-nuclear-posture-review-2018_us_5a4d4773e4b06d1621bce4c5)

La Nuclear Posture Review (NPR) è un documento che definisce la “postura”, la strategia nucleare che ogni amministrazione statunitense stabilisce all’inizio del proprio mandato. Quella precedente dell’amministrazione Obama risale al 2010 tondo tondo: essa senza dubbio rifletteva solo in parte il discorso visionario pronunciato da Obama nel 2009 a Praga su “un modo libero dalle armi nucleari” (e il Trattato Nuovo START che un anno dopo stabilì con la Russia confermava molti pacifisti creduloni nella loro disillusione).

(Per scaricare la NPR di Obama: https://www.defense.gov/Portals/1/features/defenseReviews/NPR/2010_Nuclear_Posture_Review_Report.pdf)

Questi atti dell’Amministrazione Obama, START e NPR, pur insufficienti e contraddittori, però diminuivano la minaccia nucleare immediata che era stata rilanciata dall’Amministrazione di Bush Jr. (il quale nella guerra all’Iraq del 2003 esplicitamente non aveva escluso il ricorso a qualunque tipo di arma, con evidente riferimento all’arma nucleare: la giustificazione di un attacco nucleare preventivo!).

Trump ci riporta indietro di vari decenni in materia di politica nucleare, e, per quanto qualsiasi presidente USA dobbiamo considerarlo condizionato dagli enormi interessi del Pentagono e del complesso militare-industriale, nel suo caso sembra anche legittimo dubitare della “genialità” che sta millantando di fronte a chi critica le mitragliate di tweet dai contenuti diciamo eufemisticamente poco rituali ed istituzionali.

(Si veda di Alfonso Navarra: “La guerra nucleare spiegata a Greta, EMI edizioni, 2007. Una bozza del libro su Internet è rinvenibile alla URL: files.meetup.com/206790/guerra_nucleare_greta_redazione_11-12-06.rtf )

La NPR di Trump

La sua NPR sembra la proiezione emblematica di una ossessione alla sicurezza armata che può condurre ad esiti autolesionisti, così come il disprezzo della diplomazia internazionale non giova certamente alla attrattività egemonica degli USA. In sintesi,  gli Stati Uniti svilupperanno nuove testate nucleari di piccola potenza (low yield) – “più utilizzabili” (more usable) –, e moltiplicano le circostanze in cui potranno fare ricorso a queste armi, abbassando così la soglia per il loro uso.

Può venire utile menzionare che il citato Nuovo START del 2010 vieta espressamente lo sviluppo di testate nucleari “nuove “, anche se questa norma è già stata aggirata dalle modifiche sostanziali della testata termonucleare B-61. La B-61, che già ospitiamo nelle basi di Ghedi ed Aviano, ridenominata B-61-12, diventa di fatto una testata nuova, con nuove capacità militari, nelle “strategie di guerra limitata al Teatro europeo”.

(Su questo aspettto, collegato al nuclear sharing NATO: alfonso-navarra.webnode.it/archivio-articoli/dossier-nato/ )

Da Greg Mello, del Los Alamos Study Group ci vengono segnalati anche: la cessazione del programma “Interoperabile” Warhead e il mantenimento della Bomba da 1,2 megatoni, di cui si era deciso il pensionamento.

E’ importante precisare, sottolinea Mello, che esistono elementi di continuità tra i documenti sulla NPR che si sono susseguiti nella storia; quindi anche tra la NPR di Obama e quella di Trump c’è la fiaccola che si trasmette dei programmi di modernizzazione degli ordigni nucleari.

Di per sé, la NPR non autorizza o finanzia i programmi di armi nucleari, costruisce infrastrutture o ordina le distribuzioni delle testate. E’ il Congresso che deve autorizzare e finanziare i programmi: questo spiega perché storicamente molti programmi di armi nucleari non sono stati implementati. Anche nella sfera puramente militare il Presidente può solo ordinare ciò che è possibile nelle condizioni date e può incontrare una dura resistenza da parte di generali e ammiragli.

La NPR ha quindi lo status generale di una serie di linee guida e una descrizione di un programma legislativo relativo alle armi nucleari.

(si vada su: https://www.pressenza.com/2018/01/leaked-trump-nuclear-posture-review-aims-continue-obama-weapons-modernization-significant-tweaks/)

Precisato ciò, vediamo separatamente, per facilitare l’esposizione, i due aspetti che possiamo ritenere più significativi, secondo una gerarchia individuata dallo scienziato critico Angelo Baracca: 1) le testate low yield; 2) le loro modalità d’uso. 

(si vada su: https://www.pressenza.com/it/2018/01/trump-aggrava-irresponsabilmente-la-minaccia-delle-armi-nucleari/)

  1. Nuove testate di piccola potenza

La nuova NPR stabilisce lo sviluppo di due nuovi tipi testate nucleari:

1) Una nuova testata  low yield, profondamente modificata, per i missili Trident D5 lanciati dai nuovi sommergibili nucleari della classe Columbia (con una sola parte della testata termonucleare, quella a fissione).

2) La reintroduzione di missili  Cruise, pure lanciati dai sommergibili: questa decisione, che Trump aveva preannunciato qualche settimana fa, viene giustificata con il pretesto di rispondere  all’accusa alla Russia di violare il trattato INF con gli Iskander installati a Kalinigrad.

Sviluppando testate nuove si va ovviamente in direzione contraria a quella del disarmo nucleare; ma il punto è che, con la piccola potenza, dalla “deterrenza” ci si sposta verso un possibile uso “sul campo di battaglia”.

Non dovrebbe però essere chiaro che una guerra nucleare non si può chiamare guerra perché non può rimanere limitata: l’escalation e la generalizzazione sarebbero inevitabili, e gli effetti dell’esplosione o di uno scambio anche limitati di testate nucleari avrebbe conseguenze catastrofiche e livello globale?

(si veda Alfonso Navarra, “Gli ordigni nucleari come arma di distruzione climaticahttps://www.pressenza.com/it/2018/01/gli-ordigni-nucleari-armi-distruzione-climatica/).

 Modalità di impiego allargate per gli ordigni nucleari

In questa direzione va anche un notevole allargamento delle circostanze formalizzate che consentono il ricorso alle armi nucleari. La precedente NPR di Obama escludeva tale uso contro “ Stati non nucleari aderenti al Trattato di Non Proliferazione che ottemperano gli obblighi del trattato”. La nuova NPT di Trump apre invece la possibilità di ricorrere alle armi nucleari in risposta a un attacco non nucleare “che causi vittime di massa (mass casualties)” o sia “diretto contro infrastrutture critiche o siti di comando e controllo nucleare”.

Osserva in proposito, nel citato articolo su Pressenza, lo scienziato critico Angelo Baracca: “L’ambiguità di termini quali “mass casualtiese “critical infrastructureimplica che gli Stati Uniti possono considerare il ricorso alle armi nucleari praticamente in qualsiasi conflitto armato!

Questa decisione di Trump, se confermata nel documento ufficiale, violerebbe gli impegni presi dagli USA , insieme agli altri Stati nucleari, nella Conferenza di Revisione del TNP del 2010: “diminuire il ruolo e il significato delle armi nucleari in tutti i concetti, le dottrine e le politiche militari e di sicurezza” e di perseguire negoziati per l’ulteriore riduzione degli arsenali nucleari”.

Ciò sarebbe del resto in linea con il boicottaggio del nuovo Trattato di proibizione delle armi nucleari (TPAN) del 7 luglio scorso, su cui l’Amministrazione Trump ha trascinato tutta la NATO: esso TPAN avrebbe “alimentato aspettative completamente irrealistiche”, sarebbe “divisivo”, e danneggerebbe il regime di non proliferazione.

Oltre a quanto menzionato, gli Stati Uniti – finalmente lo dichiarano in modo ufficiale – non ratificheranno il Trattato di messa al bando dei test nucleari (CTBT) del 1996: essi non lo avevano mai fatto nei trascorsi 21 anni perché – è sempre il parere di Angelo Baracca – si sono sempre riservati di poter riprendere i test nucleari, e avevano potenziato a tale scopo il poligono del deserto del Nevada.

La nuova NPT di Trump va infine messa in relazione con la nuova strategia di sicurezza nazionale, dove troviamo l’affermazione esplicita che “la Cina e la Russia sfidano la potenza, l’influenza e gli interessi dell’America, tentando di erodere la sua sicurezza e prosperità“.

Qui penso si possa concordare con una parte dell’analisi di Manlio Dinucci, collaboratore de “Il Manifesto): la vera posta in gioco per gli Stati uniti (è) “il rischio crescente di perdere la supremazia economica di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali, anzitutto Cina e Russia le quali stanno adottando misure per ridurre il predominio del dollaro che permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale”.

(Si vada su: https://ilmanifesto.it/il-vero-libro-esplosivo-e-a-firma-trump/).

Dinucci cita, traducendoli, alcuni passi salienti del documento: “Cina e Russia vogliono formare un mondo antitetico ai valori e agli interessi Usa. La Cina cerca di prendere il posto degli Stati uniti nella regione del Pacifico, diffondendo il suo modello di economia a conduzione statale. La Russia cerca di riacquistare il suo status di grande potenza e stabilire sfere di influenza vicino ai suoi confini. Mira a indebolire l’influenza statunitense nel mondo e a dividerci dai nostri alleati e partner”.

Da questa analisi strategica americana deriverebbe una vera e propria missione affidata allo strumento militare USA: “Competeremo con tutti gli strumenti della nostra potenza nazionale per assicurare che le regioni del mondo non siano dominate da una singola potenza”, ossia per far sì che l’egemonia attuale degli Stati uniti si perpetui.

La “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti”, a firma Trump, ricorda Dinucci, coinvolgerebbe quindi l’Italia e gli altri paesi della Nato, chiamandoli a rafforzare il fianco orientale contro l’”aggressione russa”, e a destinare almeno il 2% del PIL alla spesa militare e il 20% di questa all’acquisizione di nuove forze e armi.

Proprio su quest’ultimo punto del coinvolgimento europeo interviene Daniel Ellsberg, analista militare che svelò i Pentagono Papers sul Vietnam, intervistato da “Repubblica” (15 gennaio 2018) sul libro appena dato alle stampe: “The Doomsday Machine”.

La domanda della giornalista Stefania Maurizi è: “Nonostante i progressi significativi nel disarmo, oggi ci sono migliaia di armi nucleari in <hair-trigger-alert>, ovvero pronte ad essere lanciate in pochi minuti. Cosa andrebbe fatto immediatamente?”

La risposta di Ellsberg è: “Gli Stati Uniti e la NATO non dovrebbero solo adottare la politica di no first use, ma dovrebbero agire in accordo con essa, eliminando dall’Europa tutte le armi nucleari tattiche, che sono tutte altamente vulnerabili e possono portare ad un lancio su falso allarme. Ciò significa rimuovere tutte le armi oggi in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia.

Ellsberg, ovviamente, non lesina le critiche nemmeno alla Russia: “Le minacce da parte di Putin di un first use delle armi nucleari – in connessione con l’Ucraina o con Kaliningrad – sono folli e immorali, come lo sono sempre state quelle della NATO.

L’impegno di Ellsberg è, in conclusione, si parva licet, sinergico con quello del sottoscritto: allertare l’opinione pubblica sul carattere mortale della minaccia universale costituita dalle armi atomiche. Il “caso Petrov” su cui lavoriamo ne è una clamorosa conferma (vedi trailer con link sotto riportato del film su l’uomo che il 26 settembre 1983 salvò il mondo dalla guerra nucleare). E’ questo di esigere il disarmo nucleare subito l’essenza del messaggio lanciato da “La follia del nucleare: come uscirne?. Mi riferisco al libro scritto insieme a Mario Agostinelli e Luigi Mosca (Mimesis edizioni, 2016), che è uno strumento del lavoro dei “Disarmisti esigenti(www.disarmistiesigenti.org).

 ‘The Man Who Saved The World’ Promo Trailer …

 

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Gli ordigni nucleari come armi di distruzione climatica

di Alfonso Navarra – direttore de “IL SOLE DI PARIGI”
Milano – 9 gennaio 2018

L’inverno nucleare è lo scenario, di cui, tra gli altri, fu pioniere il famoso astrofisico Carl Sagan, che, leggiamo su Wikipedia, “conseguirebbe ad una ipotetica guerra termonucleare di estensione mondiale tra potenze, come la Russia, gli Stati Uniti, la Cina, la Francia, la Gran Bretagna e altri paesi in possesso di un arsenale di armamenti atomici dal potenziale distruttivo su scala globale”.
Gruppi di scienziati hanno elaborato nel corso degli anni diverse teorie riguardanti questo fenomeno: si sono basati innanzitutto sugli effetti riscontrati durante le esplosioni atomiche avvenute a Hiroshima e Nagasaki (in Giappone) sul finire della Seconda Guerra Mondiale, poi sui vari esperimenti nucleari portati a termine da molti stati nel periodo post-bellico e della Guerra fredda; infine sugli effetti collaterali del disastro di Chernobyl.
La guerra nucleare andrebbe a formare, in virtù dei venti, delle particelle di materia carbonizzata, delle polveri radioattive e di qualsiasi altra sostanza in grado di alzarsi nell’aria, una barriera impermeabile ai raggi solari che farebbe crollare le temperature nell’atmosfera. La combinazione tra le temperature gelide, l’oscurità permanente e le radiazioni dovute alle esplosioni atomiche produrrebbero sconvolgimenti climatici tali da pregiudicare la sopravvivenza delle specie animali e vegetali e provocare effetti devastanti anche sullo strato di ozono.
L’inverno nucleare deriverebbe dalla produzione di polveri fini in conseguenza dell’esplosione di testate nucleari su obiettivi civili (e quindi non sui mari o nei deserti come durante i test atomici).
Lo scenario di impiego massiccio delle armi poggia sul fatto che al momento delle esplosioni un moto convettivo (il fungo atomico) trasporta rapidamente tutte le polveri verso strati più alti.
Spiega sempre Wikipedia: “Questo dovrebbe creare una uniforme nube di polvere e cenere radioattiva sospesa nell’aria fra i 1000 e i 2000 metri da terra. La nube accumulerebbe l’energia solare e farebbe salire le temperature degli strati della tropopausa e alta troposfera fino a 80 °C mentre la superficie della Terra rimarrebbe protetta dai raggi solari e si raffredderebbe in media di 40 °C”. Scusate se è poco!
Vi sono anche scenari di impiego più contenuto di armi “atomiche” che vanno sotto il titolo di “guerra nucleare locale”: vedi articolo allegato de Le Scienze (marzo 2010), autori Alan Robock e Owen Brian Toon, dal sottoscritto citato ne: “La follia del nucleare: come uscirne” (coautori Luigi Mosca e Mario Agostinelli – Mimesis Edizioni, 2016).
Questo il sottotitolo del pezzo: “Ci si preoccupa dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, ma una guerra nucleare regionale tra India e Pakistan potrebbe offuscare il Sole e affamare buona parte dell’umanità”.
Qui la previsione diciamo ottimistica è di solo un miliardo di morti dopo una ventina di anni, a scalare dall’epicentro del conflitto.
Nel 2014 un altro studio su un possibile conflitto nucleare tra India e Pakistan è salito agli onori della cronaca: questo invece è stato pubblicato sulla rivista Earth’s Future dell’American Geological Society (AGU).
(si vada alla URL: http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/2013EF000205/full).
Siamo sempre ad uno scambio di 50 missili a testa di 15 kilotoni l’uno ma i morti previsti raddoppiano con l’uso di nuovi modelli: 2 miliardi al posto di uno.
La stessa cifra viene fuori da uno studio dell’ International Physicians for the Prevention of Nuclear War (si vada su: http://www.ippnw.org/nuclear-famine.html). Secondo quel lavoro, un conflitto nucleare su piccola scala potrebbe portare ad una diminuzione nella produzione di grano di almeno il 10% per dieci anni, con picchi che raggiungerebbero il 20% nei momenti peggiori.
Gli ordigni nucleari, se la teoria dell’inverno nucleare fosse pienamente comprovata, potrebbero secondo ogni logica essere inseriti a tutti gli effetti nella categoria delle armi di distruzione climatica: le catastrofi climatiche che possono provocare sono un effetto essenziale del loro impiego.
Arma direttamente climatica non è quindi, ad esempio, solo la tecnologia elettromagnetica usata militarmente per sconvolgere l’ambiente: è proprio l’arma nucleare, che produce onde d’urto, tempeste di fuoco, inquinamento radioattivo ed impatto elettromagnetico; ma, con un impiego relativamente allargato, anche il cosiddetto “inverno nucleare”.
Un attacco nucleare contro la Corea di poche decine di bombe H non farebbe solo milioni di morti subito su un territorio circoscritto: il cambiamento climatico e la destabilizzazione agricola ed ecologica investirebbero un’area molto più ampia (la Cina è vicina!) e nel periodo di un paio di decenni potrebbero causare, come si è visto, centinaia di milioni di morti.
Nel 1976, un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una Convenzione internazionale (  Risoluzione 31/72 del 10 dicembre 1976) che ha vietato l’uso militare di tecniche di modifica dell’ambiente che hanno effetti diffusi, duraturi e gravi nel tempo.
Essa è nota come Convenzione ENMOD (Convention on the Prohibition of Military or Any Other Hostile Use of Environmental Modification Techniques), è stata aperta alla firma il 18 maggio 1977 a Ginevra ed è entrata in vigore il 5 ottobre 1978.
L’Italia ha firmato la Convenzione a Ginevra il 18 maggio 1977 e l’ha ratificata con la legge n. 962 del 29 novembre 1980.
(Per il suo testo andare alla URL: http://disarmament.un.org/treaties/t/enmod)
La Convenzione proibisce l’uso militare e ogni altro utilizzo ostile delle tecniche di modifiche ambientali aventi effetti estesi, duraturi o severi.
Il termine “tecniche di modifiche ambientali” si riferisce ad ogni tecnica finalizzata a cambiare – attraverso la manipolazione deliberata dei processi naturali – la dinamica, la composizione e la struttura della Terra, incluse la sua biosfera, litosfera, idrosfera e atmosfera, così come lo spazio esterno.
I criteri per la definizione di tali tecniche non sono definiti nel corpo della Convenzione ma nell’Intesa sull’Articolo I che, riportando quanto emerso in fase negoziale, esplicita i termini:
“esteso” come riferibile ad un’area di diverse centinaia di kilometri quadrati;
“duraturo” come riconducibile ad un periodo di mesi o di almeno una stagione;
“severo” come correlato ad un’azione che provoca danni seri o significativi alla vita umana, naturale alle risorse economiche o altre attività.
I primi due criteri sono valutati con parametri quantitativi e l’ultimo criterio con elementi qualitativi in parte riconducibili al concetto di sviluppo sostenibile.
Il divieto di guerra climatica, ovvero di utilizzo delle tecniche di modifica del clima o di geoingegneria con lo scopo di provocare danni o distruzioni, viene ripreso anche nella Convenzione sulla diversità biologica del 2010.
Vogliamo, dopo queste informazioni, a questo punto cercare il pelo nell’uovo?
La Convenzione ENMOD non tutelerebbe l’ambiente da qualunque danno provocato dalle azioni belliche o ostili ma vieterebbe solo quelle tecniche offensive che trasformano l’ambiente stesso in un’arma, ascrivibili alle tecniche di manipolazione ambientale.
In questo senso non vieterebbe l’uso di armi atomiche per distruggere – che so – Pyong Yang ed altre città coreane. Ma si dovrebbe anche considerare l’eventualità che l’attacco alle città di un Paese piccolo possa essere solo uno schermo che nasconde l’intenzione di provocare modifiche ambientali capaci di disorganizzare e portare alla fame un Paese più grande confinante.
Gli ordigni nucleari capaci di tali effetti potrebbero allora essere considerati proibiti ai sensi della citata Convenzione ENMOD e una conferenza di revisione convocata ad hoc dall’ONU potrebbe avallare un tale sviluppo innovativo del diritto internazionale.
Un’altra strada potrebbe essere quella di considerare, all’interno del percorso dell’accordo per contrastare il riscaldamento globale di Parigi del 12 dicembre 2015, la minaccia nucleare direttamente come una minaccia climatica, non solo un problema collegato alla seconda dalla potenzialità analoga di estinzione della specie umana.
La minaccia nucleare potrebbe essere vista come possibile minaccia climatica diretta, allo stesso modo dell’accumulo di gas serra.
Questo ragionamento costituirebbe un salto di paradigma anche per noi Disarmisti esigenti, che pure abbiamo lavorato sull’intreccio tra le due minacce sia a Parigi, sia a New York che a Bonn, cioé sia nel percorso disarmista che in quello climatico.
Preparare la guerra nucleare significa comunque preparare il più sconvolgente e repentino cataclisma climatico. Potrebbe avvenire non solo come effetto collaterale ma come risultato di una azione intenzionale.
Sembrerebbe quindi opportuno, anzi doveroso, che il percorso ONU delle COP climatiche (ora dalla COP 23 di Bonn si va alla COP 24 a Katowice in Polonia) ne prendesse consapevolezza e si cautelasse dall’inverno nucleare o da quanto altro potesse essere prodotto dalle armi nucleari come alterazione climatica deliberata.
La crisi coreana rende questi discorsi molto concreti per chiunque, nel momento in cui due leader statali – e disgraziatamente non si tratta di una barzelletta – fanno la gara a chi detiene il bottone nucleare più grosso!
Quanto sopra esposto dovrebbe comunque fare riflettere reti come la COALIZIONE PER IL CLIMA, che si sono costituite con l’obiettivo di costruire iniziative e mobilitazioni comuni, nazionali e territoriali, per raggiungere la massima sensibilizzazione possibile sulla lotta ai cambiamenti climatici, allo scopo di salvare il nostro Pianeta.
Se si ha a cuore il futuro dell’ecosistema globale bisogna adoperarsi per eliminare alla radice la minaccia nucleare, che oltretutto, come si è detto, potrebbe essere direttamente minaccia climatica.
Ne consegue la necessità di farsi partner attivo della Campagna ICAN (Abolizione delle armi nucleari), allo stesso modo in cui la Rete ICAN non farebbe male ad occuparsi dell’intreccio tra minaccia nucleare e minaccia climatica.
Non sarebbe affatto fuori tema “ecologista” la richiesta che, al di là delle singole organizzazioni aderenti, la COALIZIONE in quanto tale si facesse addirittura componente di ICAN in Italia, accogliendo l’appello di “SIAMO TUTTI PREMI NOBEL”, lanciato con la conferenza stampa al Senato dell’11 dicembre 2017.

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Trump alla fine decide: U.S.A. fuori dall’Accordo di Parigi – di Alfonso Navarra

Trump alla fine decide:  U.S.A.  fuori dall’Accordo di Parigi

 di Alfonso Navarra

 

Non era un esito scontato. Dopo averci tenuto sulle spine dal G7 di Taormina, il presidente degli USA Donald Trump alla fine, all’insegna dell'”America first!”,  si è deciso ed ha deciso male. Ha ufficializzato, nonostante forti pareri contrari all’interno della sua stessa Amministrazione (la figlia Ivanka, Rex Tillerson…), scavalcando il Congresso, che recederà dall’Accordo di Parigi sul clima globale. (Teniamo presente che gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato Kyoto 1992 di cui Parigi 2015 si presenta come uno sviluppo!). Ignora i moniti  sempre più allarmanti della comunità scientifica liquidati nei tweet e nei comizi come “bufale inventate dai cinesi” e mette a rischio le speranze dell’Umanità di uscire con (relativamente) poche ammaccature dalla gavissima crisi ambientale che  un effetto serra sempre più acuto porta con sé.

(Per dettagli sulla notizia: http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/oltreradio/2017/05/31/clima-trump-ritira-gli-stati-uniti-dallaccordo-di-parigi_02e97b4c-5212-43d8-8b0f-334fcc759970.html)

La decisione, che colloca gli USA sulla stessa posizione recalcitrante di Siria e Nicaragua, va a terremotare un processo diplomatico pluriennale che alla COP 21 di Parigi aveva registrato l’unanimità sul documento finale,  ma ancora insufficiente a contenere l’aumento di temperatura entro i limiti indicati dalla comunità scientifica internazionale.  (Si stima la capacità di contenimento degli impegni volontari degli Stati a 3,5° C, mentre l’obiettivo sarebbe di 2° C, “preferibilmente” 1,5 per non fare finire sott’acqua interi Stati).

E’ molto importante tenere presente che, ai sensi dell’art. 28 dell’accordo di Parigi (il testo lo si trova, sul sito del Ministero dell’ambuiente, al seguente link in traduzione italiana: http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/cop21/ACCORDO%20DI%20PARIGI%20Traduzione%20non%20ufficiale.pdf ), per il ritiro effettivo degli USA ci vorranno 4 anni di tempo, quindi – salvo ripensamenti – esso avverrà il 4 novembre 2020, nel pieno della campagna elettorale per la presidenza.

La UE e la Cina hanno subito protestato e proclamato di voler andare avanti comunque senza che il Patto sia toccato: ma resta da vedere quanto pesi la retorica che copre  la sostanziale mancanza di una volontà politica condivisa per agire collettivamente, in modo immediato e drastico.

Dal dispaccio ANSA citato possiamo leggere della nota congiunta di Merkel, Macron e Gentiloni:  “L’Accordo di Parigi rimane una pietra angolare della cooperazione tra i nostri paesi per affrontare efficacemente e tempestivamente i cambiamenti climatici e per attuare gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda del 2030. Crediamo fermamente che l’accordo di Parigi non possa essere rinegoziato, in quanto strumento vitale per il nostro pianeta, le società e le economie. Siamo convinti che l’attuazione dell’accordo di Parigi offra grandi opportunità economiche per la prosperità e la crescita nei nostri paesi e su scala globale“.

Si è già accennato a Siria e Nicaragua, ma dopo gli USA possiamo temere che altri  dei 195 paesi firmatari si tirino indietro.  Tra le realtà importanti, dobbiamo puntare i riflettori in particolare sulla tentennante Russia, che potrebbe anche essa ripensarci insieme all’India. Attualmente l’accordo di Parigi è ratificato da 147 Stati tra i quali l’Italia, che ha sfornato di recente, con il governo Gentiloni, una Strategia energetica nazionale (SEN), che – praticamente lo ignora.

Sempre dal citato dispaccio ANSA riportiamo i seguenti dati sulle emissioni di CO2, parametro con cui si valuta l’effetto serra: ” Gli Stati Uniti sono il secondo produttore mondiale di gas serra, con il 15% delle emissioni globali (dati 2015). Il primo produttore è la Cina, con il 29%. Nel 2015 le emissioni cinesi sono calate dello 0,7% e nel 2016 di un altro 0,5%. Nei dieci anni precedenti, la produzione di gas climalteranti del Dragone aumentavano in media del 5% ogni anno. Il calo è dovuto alla chiusura di centrali a carbone e all’apertura di centrali nucleari, rinnovabili e a gas. La Cina, priva di petrolio e avvelenata dal carbone, ha convenienza a puntare su eolico e fotovoltaico e sta investendo in questi settori in modo massiccio. Gli Usa nel 2015 avevano tagliato le emissioni del 2,6% e nel 2016 dell’1,7%, grazie a notevoli investimenti sulle rinnovabili, favoriti dall’amministrazione Obama. Il terzo produttore mondiale di gas serra è l’Unione europea, con il 10%. Negli ultimi vent’anni le sue emissioni sono scese costantemente, grazie al ruolo delle rinnovabili, ma nel 2015 sono salite dell’1,4%. I problemi vengono dall’India, che contribuisce per il 6,3% alle emissioni globali e nel 2015 ha aumentato la sua produzione di gas serra del 5,2%“.

Il problema, per il tycoon diventato presidente, è non comprendere che in gioco c’è molto di più dei lavoratori americani nel settore fossile e carbonifero, c’è la Madre Terra con tutti i suoi abitanti umani e non umani. L’unica strada efficace per rispondere alla sfida sarebbe quella di abbandonare immediatamente, cioé massimo entro 30 anni, i combustibili fossili, tagliare loro i sussidi pubblici, imporre una carbon tax, procedere alla conversione ecologica di produzione e consumi, come auspicato, tra gli altri, da Papa Bergoglio.

Un dato della situazione su cui riflettere è che la gran parte dell’industria americana, comprese le multinazionali energetiche, non intende seguire la logica di Trump. Lo si evince da un appello (evidentemente iascoltato) apparso per diversi giorni sui più importanti giornali americani. Ecco quanto hanno firmato non solo i giganti della Silicon Valley, ma tutti i top manager dell’economia statunitense, inclusi quelli della EXXON (da cui proviene il Segretario di Stato Rex Tillerson). “Stiamo investendo nelle tecnologie innovative che possono aiutarci a conquistare una transizione verso l’energia pulita. E proprio in virtù di questo passaggio, il Governo deve supportarci“.

(Sul Financial Times possiamo leggere – pagando – l’appello sotto il titolo di “Exxon urges Trump to keep US in Paris climate accord” : https://www.ft.com/content/acf309b0-13b3-11e7-80f4-13e067d5072c)

Da “Repubblica on line”, in un pezzo firmato da Raffaella Scudieri”, apprendiamo di defezioni importanti dallo staff di Trump per protesta. Si cita  Lloyd Blankfein, il CEO della Goldmnan Sachs, che per l’occasione ha twittato per la prima volta in vita sua: “La decisione di oggi è un ostacolo per l’ambiente e per la posizione della leadership americana“. E il suo dissenso non è poco, visto che in molti si sono sempre riferiti all’amministrazione Trump con l’appellativo “Government Sachs”, dato il  numero impressionante di personaggi sbarcati da quella banca alla Casa Bianca.

(Si vada su: http://www.repubblica.it/ambiente/2017/06/02/news/usa_l_industria_americana_fa_muro_contro_trump_e_nuove_alleanze_crescono-167033013/)

Fabrizio Tonello riflette su il Manifesto di oggi, 2 giugno 2017, nell’articolo intitolato: “Energia, la scelta del tycoon”, su quanto la decisione di Trump di recedere da Parigi possa riflettere una divisione strategica in corso nel “capitalismo USA”, che così prospetta: “La coalizione del «vecchio» (finanza, petrolio, armamenti) o quella del «nuovo» (energie rinnovabili, sharing economy)?

Il commentatore avanza la seguente ipotesi: “I due modelli possono, in realtà, convivere benissimo: negli otto anni di amministrazione Obama le banche non si sono impoverite, i petrolieri hanno continuato a fare profitti, i mercanti di cannoni hanno esportato più di quanto non facessero con Bush e Clinton. Trump sembra però voler accelerare nel ripristinare il dominio di Wall Street e del Pentagono e difendere gli immensi investimenti dell’industria petrolifera e carbonifera, che rifiutano di essere svalutati da una transizione verso le energie rinnovabili“.

Concludo questo articolo con un riferimento alla COP 23, la Conferenza ONU delle parti che si terrà a  Bonn il prossimo novembre (per la precisione, dal 6 al 17 novembre); la quale – riprendendo il filo del lavoro della COP 22 del Marocco, a sua volta proseguimento della COP 21 di Parigi (quella, appunto, dell’accordo) – è intervenuta con il suo presidente, il fijiano Frank Bainimarama, a biasimare Trump e a ricordare che oggi non si può scherzare col fuoco climatico . “Quale presidente della imminente COP23, ribadisco che farò tutto il possibile per continuare a creare una grande coalizione che accelererà lo slancio che non si è interrotto dopo l’accordo di Parigi. La coalizione comprenderà in una sinergia ancor più collaborativa  i governi, la società civile, il settore privato e milioni di uomini e donne ordinari di questo mondo. Sono anche convinto che il governo degli Stati Uniti ritornerà alla nostra lotta perché la prova scientifica del cambiamento climatico creato dall’uomo è ben fondata e compresa. Il problema è squadernato e gli impatti sono evidenti: l’umanità non può ignorare questi fatti se non a suo rischio e  pericolo“.

(La dichiarazione completa si può leggere in inglese alla URL: https://cop23.com.fj/statement-fijian-prime-minister-incoming-president-cop23/)

 

 

 

 

 

 

 

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La Strategia energetica nazionale di Calenda è inutile – di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

16 maggio 2017

Il 10 maggio in audizione alla Camera, il ministro Carlo Calenda, insieme al collega Galletti, ha presentato la nuova Strategia energetica nazionale (Sen). Quarantasette slide per elencare obiettivi in materia di sicurezza, decarbonizzazione ed efficienza per l’anno 2025 [qui il documento].

Competitivitàambiente e sicurezza sono i tre pilastri della nuova Sen, esattamente gli stessi di quella 2013 (ma nel 2013 ce n’era un quarto: favorire la crescita economica attraverso lo sviluppo del settore energetico). Competitività significa prezzi dell’energia in linea con quelli dei “concorrenti” europei, ambiente allineamento con i target europei, sicurezza significa diversificazione dei fornitori di gas perché più sono e meno siamo dipendenti da uno di essi.

La prima sensazione, vedendo questa presentazione è quella di trovarsi di fronte ad un documento che recepisce genericamente i cambiamenti in atto nel settore energetico unitamente agli obiettivi europei in tema di ambiente e nulla più. Il che francamente risulta molto deludente e riconferma i dubbi di coloro che si chiedono quale utilità pratica abbia questa nuova Sen.

Sul fronte dell’efficienza si sottolinea come le misure relative al settore residenziale siano troppo costose, parliamo delle detrazioni fiscali, per cui se ne prevede una revisione che probabilmente mirerà a concentrare le risorse verso interventi strutturali sugli edifici. Di positivo l’annuncio di un fondo di garanzia per eco-prestiti prendendo come modello quanto realizzato in altri paesi europei.

Sulla mobilità si evidenzia come nel nostro paese circolino 16,7 milioni di autovetture molto inquinanti (euro 0-3) e che quindi sia quanto mai urgente uno svecchiamento. Però come misure si parla concretamente solo di gas metano (si annuncia il decreto tanto atteso sul biometano!) e di biocarburanti, accennando alla conversione delle raffinerie in bioraffinerie: la materia dei biocarburanti si traduce in sostanza in banali percentuali nella miscelazione del carburante.

Per l’auto elettrica si parla di incentivi solo per dire che “dovranno essere proporzionali al differenziale di emissioni e di efficienza energetica” ma non c’è nessuna cifra obiettivo, niente di niente, nessuna strategia. Viene da pensare che se ci sarà uno sviluppo della mobilità elettrica in Italia sarà per effetto delle imprese, Enel in primis (è di fresca la nomina dell’ex ad di Enel Green Power alla nuova divisione che dovrà, fra le alte cose, occuparsi proprio di e-mobility). Mentre l’Unione petrolifera prevede che nel 2030 si venderanno solo 150mila elettriche (saranno solo lo 0,5% del parco autoveicoli), Enel stima invece che già nel 2020 nel nostro paese se ne venderanno 90mila rispetto alle 2.560 vendute nel 2016. Il governo invece alla Ponzio Pilato, non prevede proprio nulla. Sta alla porta si direbbe.

Il vero pezzo forte della nuova Sen, quantomeno quello adatto a conquistare l’attenzione dei media è però il target sul carbone, nell’ambito della generazione elettrica. Vengono ipotizzati tre scenari di uscita dal carbone con orizzonti 2025-2030.

Uno inerziale, che prevede la dismissione di 2 GW e il mantenimento di quattro impianti (Torrevaldaliga Nord, Brindisi Sud, Fiumesanto e Sulcis); uno “intermedio” che prevede anche la chiusura di Brindisi, e infine uno radicale che prevede la chiusura di tutte le centrali. Per tutti e tre gli scenari sono indicati i “costi” che il sistema dovrebbe accollarsi (ergo i cittadini) per sostituire questa generazione col gas e con nuovi investimenti nelle reti. L’ultimo scenario costerebbe però circa 3 miliardi di euro in più rispetto allo scenario base perché, secondo quanto detto dal ministro Calenda, richiederebbe investimenti tra 8,8 e 9 miliardi di euro sulla rete. Ma lo scenario “inerziale” rappresenta semplicemente quello che le imprese hanno già deciso autonomamente (anzi potremmo pure dire in contrato col ministero). Lo scenario zero carbone, se fissato al 2025 comporta il mancato ammortamento dei Torre Valdaliga Nord, l’ultima centrale costruita in Italia.

Per il gas ovviamente si prevede un gran futuro (Eni ha battuto Enel?), poiché serviranno nuove centrali per sostituire il carbone e per gestire la variabilità delle fonti non affrontata con lo sviluppo degli accumuli. Nelle slide si parla di un nuovo rigassificatore, del Tap e dello sviluppo del Gnl (gas naturale liquefatto) e della metanizzazione della Sardegna.

E per le rinnovabili? Gli obiettivi sono quelli europei, quindi 27% dei consumi complessivi lordi al 2030 che tradotti significherebbero quasi il 50% della generazione elettrica (siamo al 33% oggi); 28-30% nel riscaldamento e 17-19% nei trasporti, ma non si dettagliano le fonti.

Che giudizio dare a un primo sguardo? Difficile darne uno positivo. Per prima cosa nelle 47 slide ci sono troppe cose (gasdotti, rigassificatori, Gnl, biometano, rinnovabili, pompe di calore, reti elettriche, mobilità) e di tutte si dice qualcosa di genericamente positivo, ma mancano delle scelte nette e ambiziose. Come sempre, tutto al presente, in una monotona continuità, poco o niente di adeguato al futuro.

Sen inutile quindi, meglio concentrarsi sul Piano Clima ed energia che l’Ue ci chiede e dovremo consegnare in bozza a fine anno.

pubblicato sul sul Fatto Quotidiano (http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/05/16/la-strategia-energetica-nazionale-di-calenda-e-inutile/3589615/)

Commenti che segnaliamo sul sito web del quotidiano

ionic35 

Ma si finanzia sempre e solo un’industria ? quella automobilistica ?

Marvin 

Io devo ancora capire perchè` quando si parla di politiche energetiche si parla di e-mobility. E come parlare dei nuovi frullatori o delle nuove lavatrici e vedere quanto piu` efficenti sono. Davvero siamo ridotti a fare i conti su questi numerini?

Stefano70 

Questa SEN non è inutile… è DANNOSA.
Perché per l’ennesima volta l’Italia perde l’occasione di cavalcare il futuro, scegliendo invece di subirlo, quando si troverà in posizione di inferiorità rispetto alle nuove esigenze (crisi manifesta dei fossili), avendo speso in infrastrutture anacronistiche (TAP, NGL, riconversioni a gas) e senza infrastrutture utili (Smart Grid, servizi prosumer, dorsali potenziate, accumuli).

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Obama gioca sull’accordo di Parigi le sue ambizioni di leader globale di Alfonso Navarra

Abbiamo avuto l’ex presidente “nero” degli Stati Uniti Barack Obama a Milano, accolto con la moglie Michelle come una rock star dalla gente accorsa per vederlo, in visita al Duomo ed al Cenacolo di Leonardo, ricevuto in Comune dal Sindaco Giuseppe Sala che gli ha conferito la cittadinanza onoraria, ospite di lusso in cene mondane a pagamento (850 euro per sedere al suo tavolo) e in convegni per cui ha ricevuto compensi, pare, di 400.000 euro: ho appena visionato in TV lo sketch del figlio di Maurizio Crozza sull’argomento .

Il convegno in questione è Seeds&Chips, svoltosi alla Fiera di Milano Rho in continuità con l’EXPO del 2015.

Il focus del suo intervento nell’occasione, il 9 maggio, è stato proprio l’accordo di Parigi, in fondo una sua creatura, messa oggi a rischio dalla lobby fossile di cui è espressione (tra le altre cose) il nuovo presidente USA (fino a quando in carica? Aspettiamo gli esiti del Russiagate…) Donald Trump.

Ecco quello che, secondo l’ADN Kronos, sarebbe stato il discorso del premio Nobel per la pace:

L’accordo di Parigi è stato un momento di azione collettiva senza precedenti. Certo – ha detto – non ha risolto il problema del cambiamento climatico, non ha stabilito standard sufficientemente elevati, ma ha creato una impalcatura, una architettura e un meccanismo attraverso cui ogni anno ogni Paese poteva ridurre progressivamente le proprie emissioni di gas serra“.

Donald Trump sarà pure scettico (nella campagna elettorale l’effetto serra era una hoax=bufala inventata dai cinesi e le pagine sul cambiamento climatico sono state cancellate dal sito della Casa Bianca) e sembra ora non sappia bene che fare ma, Obama si è detto convinto che gli Usa non invertiranno senso di marcia, pur con qualche possibile rallentamento. “Il settore privato ha già deciso che il nostro futuro è quello delle energie pulite e sta investendo in quella direzione“, ha spiegato.

Gli Stati Uniti devono dare l’esempio al mondo intero ed essere leader nella lotta al cambiamento climatico – ha continuato Obama – Gli Stati Uniti e l’Europa devono dare il buon esempio nel contrasto ai cambiamenti climatici, in particolare ai Paesi emergenti che ci stanno guardando“.

Bisogna cambiare anche il modo in cui si fa agricoltura. Nel giro di pochi decenni l’agricoltura potrebbe essere causa del 60-70% delle emissioni di gas serra a livello mondiale. Dobbiamo intraprendere un percorso verso un futuro sostenibile, investendo sull’agricoltura con impegni privati e con le ultime tecnologie disponibili“, ha aggiunto.

L’ANSA ha riportato un altro punto fondamentale del suo discorso. L’impegno di Obama dopo aver lasciato la Casa Bianca sarebbe quello di “formare la prossima generazione di leader” nel mondo. L’ex presidente Usa nel suo discorso di Milano ha spiegato che di questo ha discusso anche con il segretario del PD Matteo Renzi (che ha ringraziato per aver contribuito all’esito di Parigi) per “creare una rete efficiente di attivisti globali“.

L’impegno americano preso per Parigi era quello di diminuire del 28% le emissioni di CO2 entro il 2025 ma secondo il New York Times, articolo di Brad Plumer intitolato: “Stay In or Leave the Paris Climate Deal? Lessons From Kyoto”, apparso il 9 maggio 2017 (vai su https://www.nytimes.com/2017/05/09/climate/paris-climate-agreement-kyoto-protocol.html?_r=0), può essere tranquillamente ridimensionato senza andare contro le regole dell’accordo COP21.

Questo viene sottolineato dal New York Times per ricordare a Trump che la scelta non è solo “prendere o lasciare”, si può anche seguire una via di riduzione degli impegni che può permettergli, per così dire, di salvare la faccia, non isolandosi dal mondo che ribadisce che i risultati di Parigi vanno salvaguardati (si veda la prima telefonata del neopresidente francece Macron al presidente cinese Xi Jinping).

Su questo sito del “Sole di Parigi” abbiamo ricordato che al G7 energia tenutosi in aprile a Roma la dichiarazione congiunta dei sette Paesi – USA, Canada, Giappone, Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna – che avrebbe dovuto rafforzare la cooperazione mondiale contro il global warming, è saltata perché la delegazione americana ha mantenuto fede alla sua tesi di clima-scetticismo, mettendo in forse la sua permanenza nell’intesa sottoscritta nella capitale francese due anni fa.

Poi abbiamo saputo dalla Reuters che sarebbero favorevoli a rimanere nell’accordo proprio l’ex petroliere Rex Tillerson messo a Segretario di Stato, insieme al segretario per l’energia Rick Perry, ma appunto a determinate condizioni: ad esempio versare meno dollari nel Green Climate Fund e appianare il previsto taglio delle emissioni, andando così incontro alle richieste delle lobby fossili, soprattutto l’industria petrolifera.

In questi suoi primi 100 giorni Trump, per sì e per no, ha già impresso una svolta “nera” alle politiche verdi di Obama, prima rimettendo in pista la costruzione dell’oleodotto Keystone XL, poi schierandosi totalmente contro il Clean Power Plan sulle emissioni delle centrali a carbone.

Non tutta l’America la pensa così, per fortuna, anzi simpatizza con la green economy, e non solo a livello di opinione pubblica (come indicano i sondaggi riportati dal citato articolo del NYT): lo Stato di California, ad esempio, di recente ha annunciato l’obiettivo di ripulire completamente il mix elettrico entro il 2045, affidandosi unicamente alla produzione di energia rinnovabile.

Ma tornando a cosa farà da grande Obama dopo la fine dell’incarico presidenziale, possiamo individuare nel suo viaggio milanese la prima manifestazione di una sua ambizione a candidarsi come “leader del mondo”, promotore di una “internazionale democratica” , riconosciuto come “capo” da Matteo Renzi in una intervista rilasciata il 10 maggio al Corriere della Sera (vai su: http://www.corriere.it/politica/17_maggio_10/obama-milano-renzi-dall-italia-aiutero-creare-nuovi-leader-politici-1328338a-354d-11e7-ae5c-ac92466523f8.shtml).

A questo proposito citiamo il commentatore politico Paolo Valentino, in un articolo del Corriere della Sera, sempre del 10 maggio: “La Fondazione Obama, il costruendo Centro di Chicago, la futura biblioteca presidenziale, il terzo libro appartengono alla tradizione di ogni ex capo della Casa Bianca. Ma ciò che fa la differenza è che Obama si è dato né più né meno che un vero programma politico. È come se, liberato dai lacci e lacciuoli dell’ufficio, egli riscopra la sua vera ambizione di leader globale, quello che aveva immaginato e raccontato di voler essere nella campagna del 2008, per poi piegarsi alle limitazioni e ai doveri della carica. “Vorrei preparare la prossima generazione di leader del mondo”, dice alla platea milanese, che lo accoglie come neppure Bono o George Clooney.

(…) Barack Obama parla ancora da leader globale. Ma questa volta la sua è leadership morale, rafforzata da uno star power rimasto intatto nonostante le cicatrici degli anni del potere. E proprio per questo potrebbe essere ancora più efficace. Otto anni dopo Yes, we can, lo slogan che fece sognare una generazione, egli si candida idealmente a presidente del mondo. Forse l’uomo nato alle Hawaii e cresciuto in Indonesia, il padre dal Kenya e la madre dal Kansas, ha trovato la sua vera vocazione“.

La mia opinione personale? Il problema dei problemi è quello del disarmo nucleare, la cui via sarà aperta – si spera – dal bando degli ordigni deciso dalla Conferenza ONU che si chiuderà il prossimo luglio a New York. E’ comunque significativo della forza oggettiva del problema ecologico, che viene subito dopo come questione globale (la terza è la disuguaglianza che crea un baratro con l’élite ristretta dell’1%), anche se le risposte non sono all’altezza, che questo ruolo di presidente del mondo morale Obama lo voglia interpretare mettendosi alla testa della lotta contro i cambiamenti climatici…

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GLI USA NON VOGLIONO CITARE L’ACCORDO DI PARIGI – IL G7 ENERGIA FINISCE SENZA UN COMUNICATO UNITARIO

(A CURA DI REDAZIONE)

Il G7 energia a Roma finisce senza comunicato unitario. Per il delegato di Trump, il segretario all’Energia Rick Perry, non si potevano inserire in esso i riferimenti all’attuazione della COP21 di Parigi e alla decarbonizzazione dell’economia, che, strategicamente, comporta la fuoriuscita dalle fonti fossili.
I governi europei appaiono preoccupati e lo stesso premier Gentiloni, al termine del vertice Euromed, si è fatto sentire, una volta tanto: “L’Europa accetta l’opinione di tutti ma non accetta passi indietro rispetto agli impegni assunti a Parigi nella lotta al cambiamento climatico”.
Carlo Calenda, del MISE, da padrone di casa, ha ribadito che “rimane forte e deciso l’impegno per tutti gli altri Paesi (che non siano gli USA – ndr) e per la Commissione UE a implemntare l’accordo di Parigi”.
Anche senza dichiarazione congiunta, il vertice romano svoltosi il 9 e il 10 aprile al Palazzo del MISE, termina con diverse intese di massima sulla lunga lista di temi al centro della due giorni. “È stato raggiunto un accordo su molti argomenti importanti come gli sforzi congiunti per garantire la sicurezza energetica all’Ucraina, il ruolo futuro del gas, la cybersecurity nel settore energetico”, ha affermato Calenda che porta a casa un importante consenso: quello sul progetto del gasdotto EastMed, che dovrebbe portare in Europa il gas dei giacimenti di Israele e Cipro nel Mediterraneo orientale. Il progetto del nuovo “corridoio strategico”, lungo 2.200 chilometri e profondo 3, è stato presentato al summit del G7 Energia dopo la firma d’impegno alla realizzazione, lo scorso 4 aprile, da parte di Italia, Israele, Cipro, Grecia e Unione europea. I lavori potrebbero partire alla fine del 2017 per permettere la commercializzazione delle riserve energetiche, per 2mila miliardi di metri cubi di gas, entro il 2025.
Dal Sole 24 Ore apprendiamo che oggi (11 aprile 2017) Calenda rivedrà Perry in un incontro dedicato ai dossier bilaterali, rinviando al vertice di Taormina un eventuale nuovo passaggio sul dossier climatico.
Ricordiamo che l’obiettivo degli accordi COP 21 è quello di restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, con l’impegno a portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi”, oltre alla promessa, da parte degli Stati firmatari, “di raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più presto possibile”, sino ad arrivare ad “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e le rimozioni di gas serra nella seconda metà di questo secolo”.
Ma, al di là della retorica d’occasione, non sembra che nei piani concreti dell’Italia ci ci sia l’abbandono del modello fossile a favore delle rinnovabili. La Strategia energetica nazionale (SEN) è tale solo per modo di dire ed ha la caratteristica di essere slegata dal piano climatico, o SEC.
(Una caratteristica che, a dire il vero, si riscontra anche nei contropiani dell’opposizione politica).
Il gasdotto TAP, oggi alla ribalta per la protesta dei pugliesi e per gli interventi di blocco della magistratura, è emblematico di una mentalità “fossile” che non vuole proprio essere dismessa.
Due fattori in particolare sconsigliano di considerare prioritari gli investimenti sulle infrastrutture legate all’estrazione del gas:
1. Lo sviluppo dell’efficienza energetica, l’aumento delle fonti rinnovabili in Europa e la crisi economica che ha fatto calare sia l’offerta che la domanda dei combustibili tradizionali;
2. l’Europa è abbastanza preparata ad eventuali “sorprese” da parte russa sul gas ed ha alternative per sopravvivere se Gazprom dovesse decidere di chiudere i rubinetti.
Il comunicato ufficiale del MISE lo si rinviene al seguente link: http://www.mise.gov.it/index.php/it/198-notizie-stampa/2036365-g7-energia
Sul nostro sito, www.ilsolediparigi.it, per documentazione, è possibile leggere quella che è la sintesi conclusiva del presidente, il Chair’s Summary (in inglese, pdf).
Per maggiori informazioni
Sito Presidenza italiana G7
www.g7italy.it

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LA COP 23 DI BONN RIMETTA SUI BINARI LO SPIRITO DI PARIGI di Alfonso Navarra

L’accordo di Parigi (12 dicembre 2015), su cui pure è imprescindibile lavorare, ha una trappola simile a quella del Trattato di Non Proliferazione: non c’è una scadenza che fissi la DECARBONIZZAZIONE TOTALE dell’economia, cioé l’azzeramento delle emissioni di C02: questo è un grosso risultato della lobby fossile (e nucleare).
Altro punto debole sono i controlli “autocertificati”.
Ed infine non sono chiari i meccanismi del “Fondo verde” che dovrebbe investire dal 2020 al 2025 100 miliardi di dollari l’anno.
Quello che è certo è che gli attuali impegni nazionali autodeterminati faranno aumentare la temperatura a 3,5° C: una catastrofe assoluta.
Ma anche se viene raggiunto l’obiettivo ufficiale dei 2°C siamo praticamente quasi rovinati, come spiega il Rapporto Stern (ex capo economista della Banca Mondiale incaricato dal governo inglese), QUI consultabile nei materiali:
– Diminuzione del 30% della disponibilità di acqua in Africa e nel Mediterraneo.
– Brusca riduzione della resa agricola nelle regioni tropicali.
– 40/60 milioni di persone esposte alla malaria.
– 10 milioni colpite da esondazioni.
– Da 15 a 40% delle specie a rischio di estinzione
– Fusione del ghiaccio della Groenlandia.
– Aumento di livello del mare di 7 metri
– Brusche variazioni nella circolazione atmosferica.
– Rischio di collasso dell’Antartico occidentale.
– Rischio di collasso della circolazione termosalina atlantica.
A Marrakech con la COP 22 del novembre 2016 la sensazione è che le lobby fossili abbiano ripreso ulteriore spazio. Sono un settore produttivo che inneggia retoricamente al libero mercato ma che in realtà, secondo le stesse stime del FMI, percepisce aiuti pubblici, diretti e indiretti per 5.300 miliardi di dollari all’anno, vale a dire il 6,5% del Pil mondiale!
Questo è un aspetto su cui vale la pena insistere: se eliminassimo questa montagna di sussidi impliciti ed espliciti, si stima, le emissioni di gas serra calerebbero del 20%, un passo avanti determinante nella lotta al global warming sulla quale si stanno facendo pochi progressi. Eliminare il vantaggio che carbone, petrolio e gas si prendono a spese di tutti dimezzerebbe anche il numero delle morti premature causate ogni anno dall’inquinamento atmosferico.
Inoltre, eliminando questi aiuti e facendo pagare alle fossili i danni che creano, in molti Paesi si darebbe una spinta determinante alle finanze pubbliche, spingendo gli investimenti in infrastrutture, sanità, lotta alla povertà e Stato sociale.
Infine, togliendo i sussidi a gas, carbone e petrolio le diverse fonti energetiche fossero messe nelle condizioni di competere veramente alla pari, spiegano dal blog del FMI, ci sarebbe molto meno bisogno di incentivi alle rinnovabili, che comunque al momento – pesando per 120miliardi di dollari l’anno a livello mondiale secondo la stima IEA per il 2012 – sono praticamente un’inezia in confronto a quelli delle fossili.
La COP 23 si terrà a Bonn dal 6 al 17 novembre 2017. (Per informazioni su Bonn: http://unfccc.int/meetings/bonn_nov_2017/items/10068.php.) Si è deciso che la presidenza, però, non andrà alla Germania, bensì alle Isole Fiji. Una scelta dal valore altamente simbolico, se si tiene conto del fatto che sono proprio gli “Stati Isola”, gli atolli e le piccole nazioni insulari ad essere più a rischio a causa dei cambiamenti climatici.
Si spera che in quella sede avanzi e si concretizzi la discussione sui finanziamenti di solidarietà dei Paesi più ricchi nei confronti dei Paesi più poveri, che sono anche quelli che più subiscono l’impatto delle catastrofi nazionali.
Anche per questo aspetto possiamo citare lo studio di una istituzione che viene considerata complice degli “straricchi”: la Banca Mondiale. Un suo recente rapporto (scaricabile al link: https://openknowledge.worldbank.org/handle/10986/25335) indica che in tutto il mondo, ogni anno, le catastrofi naturali generano perdite pari a 520 miliardi di dollari e spingono sotto la soglia di povertà, fissata a 1,9 dollari al giorno, circa 26 milioni di persone. Sono cifre esorbitanti, rivelatrici del fatto di quanto le stime della Banca mondiale, in termini economici ed umani, siano nettamente superiori a quelle fornite finora dalle Nazioni Unite. La Banca mondiale si è infatti basata, per il suo studio, non solo sulle perdite materiali, come ad esempio i danni agli edifici e alle infrastrutture, ma ha anche tenuto conto di altre conseguenze dirette sulla popolazione più vulnerabile come ad esempio le difficoltà di accesso alle cure mediche e ad una alimentazione adeguata, l’ interruzione e l’abbandono di un percorso scolastico.
Le catastrofi naturali colpiscono quindi in modo più drammatico le popolazioni più povere, che “subiscono solo l’11 per cento dei danni materiali, ma perdono il 47 percento in termini di benessere”. Il rapporto cita l’esempio dell’uragano Matthew che ha colpito Haiti e gli Stati Uniti lo scorso ottobre : “I danni sono stati valutati in 2 miliardi di dollari ad Haiti e in 7 miliardi negli Stati Uniti. Ma in realtà l’evento è stato decisamente più devastante nell’isola centro-americana.”
Il rapporto mette in evidenza anche le contromisure necessarie per far fronte a tali conseguenze sociali ed umane e conclude : “Pochi eventi climatici estremi minacciano di annullare decenni di progresso contro la povertà”.
L’Europa continua ad incentivare il nucleare ed è soggetta alle direttive Euratom, che recepisce automaticamente.
L’Unione Europea ha definito nell’ottobre del 2014 una Strategia su clima ed energia che prevedeva l’obiettivo vincolante per gli Stati membri di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra nel territorio dell’Unione di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990, e di contribuire con una quota di almeno 27% di energia rinnovabile e un miglioramento del 27% dell’efficienza energetica. Ma nel 2015 i Paesi dell’Ue hanno consumato sì meno energia, ma non meno fonti fossili: gli sforzi per decarbonizzare i sistemi energetici e i trasporti sono troppo lenti. Secondo i dati Eurostat (del 20 febbraio 2017), è aumentata l’incidenza dell’importazione di combustibili fossili nell’UE che soddisfa il 73% della domanda.
Bene fanno quindi i movimenti di base a mobilitarsi con iniziative internazionali, come è avvenuto l’11 marzo scorso, sesto anniversario di Fukushima, a Fessenheim (centrale nucleare stravecchia, al confine tra Francia e Germania) e Strasburgo, sede del Parlamento europeo.
A livello italiano registriamo invece la proposta di Strategia Energetica Nazionale (SEN) del Ministro Calenda, con la sua pecca di fondo nell’impostazione: separare l’energia dal Piano integrato sul clima.
Quindi il problema che ci si pone a livello governativo non è come decarbonizzare il settore energia, ma come – è una vecchia solfa! – abbassare le bollette a suo dire troppo caricate dagli incentivi alle rinnovabili (quelli alle fossili, 15 miliardi di euro all’anno, non si toccano!) e come evitare che ENEL chiuda le sue vecchie centrali termoelettriche.
In realtà sappiamo che la vera strategia energetica decisa dall’Italia (che coincide con buona parte della politica estera) è quella decisa dalle multinazionali parapubbliche ENI ed ENEL, soprattutto dalla prima.
All’ENI possiamo fare risalire, lo dimostreremo con vari articoli su questo sito, il nostro avventurismo bellico in Libia.
Abbiamo poi la politica PRO-TRIV rinfrancata dal referendum che il movimento non è riuscito a vincere nell’aprile 2016.
Ai No TRIV, spalleggiati dai No TAV, dobbiamo oggi aggiungere i No TAP: i cittadini che protestano a Melendugno contro il gasdotto che dall’Azerbaigian porterà il gas in Puglia, dopo aver attraversato l’Adriatico (TAP sta per Trans Adriatic Pipeline). La molla della ribellione popolare è l’espianto dei 200 circa ulivi secolari nel cantiere dove sarà installato l’impianto che permetterà il passaggio di gas (adesso il Tar del Lazio ha accolto la richiesta di sospensiva degli espianti avanzata dalla Regione Puglia).
E’ importante questo collegamento pratico tra realtà di “opposizione a un modello di sviluppo basato sulla distruzione del territorio e alla speculazione economica ai danni della popolazione”.
Ma non si vede al momento la capacità di formulare e perseguire una strategia realmente alternativa a ciò contro cui ci si oppone.

Alfonso Navarra www.ilsolediparigi.it

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IL FILORUSSO TRUMP CI PORTERA’ ALLA GUERRA CONTRO LA RUSSIA? di Alfonso Navarra

Il fatto che i Cruise contro l’aeronautica militare di Assad siano partiti da portaerei americane della VI Flotta con comando a Napoli lo mette in rilievo: l’Italia, in una vasta area che dal Medioriente e Nordafrica arriva fino al Mar Nero, è una fondamentale piattaforma di lancio della strategia militare Usa/Nato che coinvolge contraddittoriamente gli appetiti “energetici” degli ex imperi europei.
Gli Stati Uniti e gli alleati europei della Nato sono responsabili di una situazione di conflitto sempre più pericolosa, provocata dal fallimento delle “primavere arabe” (eccetto che in Tunisia) che sta conducendo, con l’intervento determinante di aggressioni militari “esterne”, all’esplosione di Stati a loro tempo costruiti a tavolino da patti coloniali anglo-francesi sulle rovine dell’Impero Ottomano o sulle avventure del colonialismo italiano in Africa (vedi Libia).
La loro azione si innesta su conflitti religiosi millenari (il contrasto sunniti-sciiti) e su più recenti contrasti nazionalistici tra arabi e persiani, etnie arabe e Stati arabi, arabi contro israeliani (derivanti dal sionismo installato in Palestina dall’imperialismo inglese).
I gruppi terroristi come l’ISIS (quest’ultima costituita in gran parte da ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein dismesso) sono strumentalizzati in parte da potenze straniere (in particolare godono della complicità della Turchia contro i Kurdi e del finanziamento dell’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo) ma la loro ideologia ed il loro progetto politico ha basi indipendenti, così come le Brigate Rosse in Italia, pur con le loro infiltrazioni, non erano una invenzione della CIA ma sostanzialmente autonome.
Ad aumentare ulteriormente il caos conflittuale, pagato duramente e sanguinosamente soprattutto dalle popolazioni civili, si pone l’intervento russo a sostegno del regime di Assad, e volto a sostenere ambizioni oltretutto esagerate da Grande Potenza che però non ha base economica (a parte la produzione di combustibili fossili).
Il ruolo di Putin a fianco dell'”asse sciita” in Medio Oriente non è un ruolo difensivo e di pace (che senso ha una flotta militare russa nel Mediterraneo) ma aggiunge violenza a violenza in un contesto degradato in cui, per così dire, “il più pulito ci ha la rogna”.
Un effetto collaterale dell’attacco missilistico del neopresidente USA Trump è comunque la pietra tombale sulla prospettiva di collaborazione USA e Russia “contro il terrorismo” in Medio Oriente.
L’anomalia Trump sta per essere “digerita” dall’establishment cui pretendeva di opporsi: si veda l’esclusione dal consiglio di sicurezza nazionale dell’ideologo parafascista Steve Bannon.
E’ possibile, insomma, che da una amministrazione accusata di essere “filorussa” possa venire una vera e propria guerra contro la Russia perché le aree in cui Washington e Mosca si fronteggiano direttamente stanno diventando sempre più calde. Si pensi a quello che poteva succedere se, per errore, un Cruise avesse colpito un caccia russo negli hangar di Shayrat!
Noi, “popolo della pace”, non possiamo starcene con le mani in mano mentre infuria la “guerra mondiale a pezzetti” (copyright papa Francesco), aumentando il rischio sottostante di una catastrofica guerra nucleare. Dobbiamo esercitare i nostri diritti costituzionali ed umani, ripudiando la guerra mediante la riproposizione di una soluzione ragionevole: esigendo allo stesso tempo la dissociazione dell’Italia e dell’Europa dall’interventismo militare bellico nel Mediterraneo ed in Medio Oriente; così come dalla deterrenza nucleare NATO.
La poltica di pace deve fondarsi su una grande conversione energetica ed ecologica, che coinvolga gli attori oggi in conflitto nel lavoro comune per attuare l’accordo di Parigi sul clima, quello da cui Trump sta cercando di far recedere gli USA.
Mettiamola ancora sull’ironico: non dimentichiamo che, se continuiamo a pestarci per motivi identitari legati a giochi di piccolo o grande potere, per il controllo di fonti energetiche da cui l’Umanità intera ha deciso ufficialmente di fuoriuscire, il nostro destino sarà, per la scienza ufficiale e non per il mago Otelma, di finire tutti, donne e uomini di qualsiasi colore, religione, nazione, in senso proprio, a mollo!

Alfonso Navarra

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La (nuova) Strategia energetica nazionale del ministro Calenda è un film già visto – di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Il governo è al lavoro sulla nuova Strategia energetica nazionale (Sen). Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (v. audizione 1 marzo in X commissione Senato) ha spiegato che la “vecchia” Sen va aggiornata “a seguito delle profonde trasformazioni economiche e in particolare del mercato energetico occorse negli ultimi quattro anni”. Vorremmo sottolineare “economiche” e “mercato” per cogliere la cultura di chi ha ipocritamente firmato la Convenzione di Parigi sul clima e la scarsa credibilità di tutti i riferimenti al cambiamento strutturale del sistema energetico.

Secondo Calenda la Sen 2017 sarà uno strumento per tre obiettivi:

  • individuare le principali scelte strategiche in campo energetico, in connessione anche ai nuovi obiettivi europei del Clean Energy Package e traguardando obiettivi di sicurezza e economicità;
  • definire le priorità di azione e indirizzare le scelte di allocazione delle risorse nazionali;
  • gestire il ruolo chiave del settore energetico come abilitatore della crescita sostenibile del Paese;

Un primo e non secondario problema è capire che significato possa avere questa nuova strategia. Va ricordato che la “vecchia” nacque per giustificare il ritorno al nucleare e fu l’allora ministro Scajola a inserirla in un decreto legge (112/2008). Fortunatamente, dopo Fukushima e il referendum, tutto si è ridotto a slides coloratissime, che segnalavano la Sen 2013, fondata su tre pilastri: competitività, ambiente, sicurezza.

A ben guardare dal 2013 a oggi nessuno dei tre obiettivi ha fatto passi avanti perché anche se oggi si continua a ripetere che il nostro Paese ha già raggiunto gli obiettivi europei stabiliti per il 2020 (il famoso pacchetto 20-20-20), si tratta di un risultato pregresso: negli ultimi tre anni di passi avanti ne sono stati fatti pochi, anzi nel settore elettrico siamo in ritirata. Basti confrontare la quota di elettricità generata dalle rinnovabili nei primi due mesi di quest’anno con i tre anni precedenti, dal 32,9% siamo scesi al 27,4% (Fonte: Qualenergia.it). La vecchia Sen del resto metteva molta più enfasi sul progetto di fare dell’Italia un hub del gas che sullo sviluppo delle rinnovabili che era sempre citato solo unitamente al termine “sostenibile” inteso in senso economico.

L’Unione Europea ha definito nell’ottobre del 2014 una Strategia su clima ed energia che prevedeva l’obiettivo vincolante per gli Stati membri di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra nel territorio dell’Unione di almeno il 40% rispetto ai livelli del 1990, e di contribuire con una quota di almeno 27% di energia rinnovabile e un miglioramento del 27% dell’efficienza energetica. Ma nel 2015 i Paesi dell’Ue hanno consumato sì meno energia, ma non meno fonti fossili: gli sforzi per decarbonizzare i sistemi energetici e i trasporti sono troppo lenti. Secondo i dati Eurostat (del 20 febbraio 2017), è aumentata l’incidenza dell’importazione di combustibili fossili nell’UE che soddisfa il 73% della domanda.

Quindi, ridurre le emissioni, aumentare le rinnovabili (altrimenti il primo obiettivo risulta irraggiungibile) e consumare meno energia, ossia fare efficienza dovrebbero essere i tre pilastri della nuova SEN. Relativamente a questo terzo pilastro la Commissione europea nel “Clean Energy package”, un pacchetto di proposte pubblicato novembre 2106, ha previsto un obiettivo legalmente vincolante di risparmio energetico del 30% al 2030, con l’obbligo per gli Stati membri di produrre entro il 1° gennaio 2019 un piano nazionale integrato in materia di energia e clima per il periodo dal 2021 al 2030. Viene naturale pensare che si potrebbe evitare di scrivere una SEN, che al momento non avrebbe alcun “ancoraggio” legislativo, senza alcun passaggio parlamentare, concentrandosi invece sulla preparazione di questo piano su energia e clima.

Calenda ha però esplicitato che intende separare SEN dal Piano integrato energia e clima e di conseguenza la sua posizione rimane legata alla vecchia Sen. Obiettivo primario rimane quindi la competitività che si traduce nel problema dei costi del gas e dell’elettricità in Italia (il secondo è conseguenza del primo essendo il gas a fare il prezzo dell’elettricità in Italia). Riguardo al mix elettrico, Calenda lamenta che abbiamo più rinnovabile (in percentuale) rispetto a Francia e Germania e che questo è costato un onere che pesa sulle bollette elettriche. Un leit motiv che dura da sei anni e che sarebbe bello cessasse almeno per superare la noia.

Calenda in parlamento non ha proferito parola su come proseguire per decarbonizzare il settore energia, al contrario ha lamentato il problema di Enel che chiude centrali termoelettriche (vecchie, va precisato) e come ciò rappresenti un rischio per la sicurezza del sistema elettrico. Nei punti elencati come temi chiave della nuova Sen le rinnovabili sono state messe in contrapposizione con l’efficienza energetica nella ricerca del “mix ottimale per centrare gli obiettivi” (europei). Capitolo a sé per il gas, per la raffinazione e la logistica petrolifera, cui si aggiungono il capitolo liberalizzazione del mercato elettrico (fine della tutela) e la riforma delle regole del mercato elettrico all’ingrosso.

E’ un film già visto: è uno sguardo che non sa alzare la testa per vedere almeno un frammento di futuro ed è uno sguardo che non sa collegare l’energia all’inquinamento e al clima. Usciamo da un inverno in cui i polmoni (almeno di chi abita nella Pianura padana) hanno respirato ossidi di azoto e polveri sottili in quantità esagerata e nelle premesse della Sen non c’è nessun accenno a un possibile piano di rottamazione per i diesel più inquinanti sostenuto da una incentivazione all’auto elettrica. Nessun accenno a una possibile azione combinata per rimuovere l’eternit in cambio di fotovoltaico, o nessuna proposta per rinnovare gli impianti eolici più datati aumentando la generazione a parità di impianti e quindi senza consumo di suolo.

E non scandalizziamoci sempre e soltanto per Trump: in fondo, gli interessi delle lobby da noi si dimostrano sempre vivaci, aggressivi e ben rappresentati.

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IL G7 ENERGIA IGNORA GLI ACCORDI DI PARIGI di Alfonso Navarra

Il 43º vertice del G7, come riunione centrale dei Capi di Stato e di governo, si svolgerà al Palacongressi di Taormina in SiciliaItalia, il 26 e 27 maggio 2017. La riunione sarà guidata dal Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni. Per la quarta volta consecutiva dopo la sospensione della Russia dal G8 nel marzo 2014 il vertice si terrà nel formato G7 e non G8.

La scelta di Taormina come sede del G7 fu annunciata dall’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi il 4 luglio 2016. Il vertice era inizialmente programmato per svolgersi a Firenze. Tra i motivi del cambio di scelta, Renzi citò le parole di un leader internazionale in occasione di un precedente vertice che con una battuta aveva evidenziato il suo pregiudizio nei confronti della Sicilia additandola come terra di mafia e affermò che quelle parole lo avevano convinto a fissare il G7 proprio in Sicilia. La scelta della Sicilia è stata inoltre motivata dal Governo con la volontà di tener viva l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e dei leader sulla vicenda delle migrazioni e dei profughi.

Sono attesi a Taormina per la partecipazione: per l’ Italia: Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio; per il Canada: Justin Trudeau, Primo ministro; per il Giappone: Shinzō Abe, Primo Ministro; per la Francia il Presidente Hollande; per la Germania: la cancelliera Angela Merkel; per il Regno Unito: Theresa May, Primo Ministro; per gli Stati Uniti, il neopresidente Donald Trump.

Partecipano anche, per l’Unione Europea: Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo; e Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione UE.


Il summit centrale a Taormina è accompagnato da vertici di settore, secondo il seguente calendario:

Data

Città ospitante

Summit

30-31 marzo 2017 Firenze G7 Ministri della Cultura
9-10 aprile 2017 Roma G7 Ministri dell’Energia
10-11 aprile 2017 Lucca G7 Ministri degli Esteri
11-13 maggio 2017 Bari G7 Ministri delle Finanze
10-11 giugno 2017 Bologna G7 Ministri dell’Ambiente
21-22 giugno 2017 Cagliari G7 Ministri dei Trasporti
26-27 settembre 2017 Torino G7 Ministri dell’Industria
28-29 settembre 2017 Torino G7 Ministri di Scienza e Tecnologia
30 settembre-1 ottobre 2017 Torino G7 Ministri del Lavoro
14-15 ottobre 2017 Bergamo G7 Ministri dell’Agricoltura
5-6 novembre 2017 Milano G7 Ministri della Salute

A Roma il 9-10 aprile si svolgerà il vertice di settore dei Ministri dell’Energia la cui agenda prevede temi quali le nuove rotte del gas e le pipelines per assicurarsi la diversificazione degli approvigionamenti (come la Tap finita nel mirino del Tar del Lazio o il nuovo progetto di gasdotto Eastmed per unire Israele all’Italia entro il 2025), ma anche la cybersicurezza delle reti elettriche e la corsa all’efficienza energetica. Saranno testate le nuove posizioni dell’amministrazione Trump che ha rilanciato il carbone con l’intenzione di “rottamare” le politiche ambientali del predecessore Obama. Forse non è un caso che nel programma ufficiale riportato dal sito – in cui non è indicata la sede dell’incontro quindi presumiamo che sia la sede del Ministero in via Molise, 2 – siano assenti sia l’accordo globale sul clima stipulato a Parigi sia il tema conseguente dello sviluppo delle fonti rinnovabili.

Il programma prevede l’avvio dei lavori alle 19 di domenica 9 aprile con il saluto del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e una cena di lavoro. La mattinata successiva si articolerà con varie sessioni di lavoro e si concluderà con la conferenza stampa di chiusura nel primo pomeriggio durante la quale sarà diffusa la dichiarazione finale congiunta con le azioni che si vogliono promuovere. Nel pomeriggio di domenica è anche previsto un evento organizzato dalla Fondazione Enel dedicato all’accesso all’energia in Africa al Maxxi di Roma.

Un aspetto che rende il vertice interessante è che sarà la prima occasione di confronto con la nuova amministrazione Usa che sta assumendo posizioni diverse dal recente passato di Obama sui temi energetici:  è prevista infatti la partecipazione del nuovo segretario all’Energia Rick Perry. E’ forte l’interesse a capire quanto da parte USA si intenda cambiare rotta e con che consequenzialità, visto che il nuovo presidente Usa Donald Trump proprio nei giorni scorsi ha firmato un ordine esecutivo per rivedere le norme per la lotta ai cambiamenti climatici: di fatto si va a ribaltare la maggior parte delle politiche a difesa dell’ambiente portate avanti dal suo predecessore. «Con me si mette fine alla guerra al carbone – ha annunciato Trump – Rimetteremo i minatori al lavoro».

E l’Italia? Lo scorso giugno il MISE, ministero dello Sviluppo economico, ha presentato la relazione “La situazione energetica nazionale nel 2015″ volta al monitoraggio e all’aggiornamento della Strategia energetica nazionale (SEN). In quell’occasione i dati hanno riportato che, a livello mondiale, l’offerta di greggio e gas ha esercitato una pressione al ribasso sui prezzi. È proseguita la diffusione delle fonti rinnovabili con un contributo rilevante delle economie emergenti, in particolare della Cina e per la prima volta dopo 10 anni si è ridotto il commercio mondiale di carbone. In Italia, pur permanendo una significativa dipendenza dalle fonti estere, si starebbe assistendo a una transizione verso un sistema energetico più efficiente, autonomo e a minor intensità di carbonio.

Al G7 Energia quindi verrà presentata la nuova SEN che, come specificato dal ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, si declinerà su tre assi: competitività, ambiente e sicurezza. In audizione in Commissione Ambiente alla Camera proprio sulla revisione della Sen, Calenda ha precisato che la nuova Strategia, basandosi su questi tre assi, avrà come conseguenza una crescita economica sostenibile. Un quadro stabile quindi che ha l’obiettivo di favorire gli investimenti e le attività di ricerca e sviluppo in tecnologie innovative. Altro obiettivo è quello di ridurre il gap di costo dell’energia, allineandosi ai prezzi dell’Unione europea, in vista di una migliore competitività italiana. Per le questioni ambientali, Calenda ha anche affermato che si vogliono “raggiungere gli obiettivi ambientali clima-energia al 2010 e al 2030, supportando la mobilità alternativa”.

(Per una analisi critica della SEN si veda l’articolo di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli apparso anche sul blog del “Fatto quotidiano”).