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Tempi di fraternità: pace per l’umanità 

Un ambito culturale di impegno nel sito della rivista tempi di fraternità

Tempi di fraternità: pace per l’umanità

Un innovativo spazio di accoglienza all’interno del sito della rivista Tempi di Fraternità dal titolo emblematico Pace per l’umanità

Sezione Pace per l'umanità nel sito della storica rivista Tempi di Fraternità

In collaborazione con Fabrizio Cracolici, è stato creato un ambito, un nuovo spazio, in un innovativo settore culturale dal titolo Pace per l’umanità dagli amici e compagni della storica rivista delle comunità e delle realtà di base, nata sulla scia del concilio Vaticano secondo, dal titolo emblematico Tempi di fraternità, per ampliare il sito della rivista che si occupa e tratta approfonditamente vari temi importanti, dall’ecumenismo al dialogo interculturale e interreligioso.

Con Fabrizio Cracolici, all’interno di questo sito nel nuovo ambito dal titolo Pace per l’umanità, scriviamo e pubblichiamo articoli riguardanti i più svariati temi della pace e della nonviolenza, dell’antifascismo, dell’accoglienza, della non discriminazione, delle pari opportunità, affrontando anche le grandi questioni relative all’ampio panorama del disarmo nucleare, della denuclearizzazione dal basso e della proibizione delle armi nucleari a livello di trattati internazionali Onu. Gli amici e compagni di Tempi di Fraternità ci hanno regalato una grande opportunità: un importante spazio e ambito culturale da coltivare nell’ambito del sito della rivista Tempi di Fraternità al fine di porre in risalto le competenze, i concetti e le azioni, tradotte in buone pratiche in tutti questi anni di attivismo sociale e civile per crescere nella costruzione, da realizzare insieme, di un’educazione alla cittadinanza attiva e globale a partire dai grandi obiettivi dell’agenda ONU 2030 e della carta della terra: la pace per l’umanità.

 

Sezione Pace per l’Umanità all’interno del sito della Rivista Tempi di Fraternità:

https://www.tempidifraternita.it/public/pace/indice_art.htm

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Esperienze di attivismo: dialoghi con Laura Tussi

Attivismo di pace e nonviolenza

Esperienze di attivismo: dialoghi con Laura Tussi

Lavorare in rete, tessere complicità e punti di forza con tutti i compagni di viaggio in cammino verso la pace e la nonviolenza
Fabrizio Cracolici

Laura Tussi e Fabrizio Cracolici - PeaceLink

Intervista di Fabrizio Cracolici a Laura Tussi

L’importanza degli amici e compagni di viaggio per migliorare la realtà. Raccontati.

 

La mia esperienza di attivismo per la pace è nata a partire da fondamentali punti convergenti: un contesto sociopolitico dinamico e attraente, una pratica e un’attitudine verso un impegno disinteressato, una disposizione all’apprendimento e all’azione nonviolenta condivisa e una modalità di intervento operativa e non burocratica.

Con tanti compagni di viaggio, ci siamo dovuti coordinare per rispondere a questa sfida che era più grande di noi: l’impegno per migliorare la nostra realtà.

E ci siamo riusciti impegnandoci intensamente, ma lentamente, quotidianamente, senza precipitarci nel darci delle strutture organizzative, accettando compiti e responsabilità enormi con la convinzione che insieme avremmo potuto affrontarli con leggerezza. Abbiamo inventato programmi di formazione, fatto ricerche, recuperando memoria storica, prodotto materiale educativo, realizzato laboratori, seminari, incontri e presentazioni in pubblico.

 

Il lavoro in rete per l’attivismo di pace nel tessere relazioni e complicità costruttive: quali sviluppi comporta?

 

Il lavoro in rete per l’attivismo di pace è un modo di fare le cose che presuppone il mettersi a tessere relazioni, apprendimenti, complicità avanzando nella realizzazione di uno spazio comune, aperto e diversificato dove si possono sommare nuove iniziative, proposte e impegni. Il lavoro in rete per la pace presuppone il dedicare particolare attenzione al processo di costruzione degli spazi di incontro ed azione comune e non alla struttura organizzativa, la quale diventa secondaria e funzionale alle dinamiche dei processi individuali e dei percorsi collettivi.

Il fattore dinamizzante del lavoro attivista è trainato da obiettivi e traguardi strategici e non dal lavoro in rete in se stesso. Il senso di una rete non consiste nel rivolgersi al proprio interno, nel ripiegarsi su se stessa, ma è piuttosto in ciò che si fa verso l’esterno: qui sta la sua efficienza e la sua efficacia.

 

Il rispetto, la valutazione e la valorizzazione delle differenze. Quale importanza hanno?

 

Lavorare in rete per l’attivismo di pace presuppone, per quanto detto in precedenza, il rispetto, la valutazione e la valorizzazione delle differenze e delle diversità insite e implicite in ogni attivista e soggetto coinvolto. Queste costituiscono un fattore di rafforzamento, nella misura in cui si rispettano e si utilizzano senza imporre determinate peculiarità a discapito di altre. Per questo sono importanti il dibattito, la pianificazione e la strutturazione di obiettivi e azioni, così come la specializzazione degli incarichi, per rendere possibile la complementarità di sforzi e capacità, senza escludere, senza esclusioni e ostracizzazioni di sorta.

 

Accordi e disaccordi: qual è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere?

 

Non dobbiamo dare per scontato che tutte le persone appartenenti a organizzazioni attorno a un medesimo proposito generale siano già completamente d’accordo. Occorre promuovere le opere di espressione di tutte le idee e visioni per trovare quelle convergenze che danno un’identità all’impegno, ma anche per conoscere le divergenze.

Un disaccordo trascurato può tradursi in fattore di conflitto che scoppia proprio per essere stato tenuto in uno stato di tensione latente per molto tempo. Troppo tempo.

E può diventare un fallimento.

Per questo, bisogna sforzarsi di trovare tutti i punti di convergenza possibili, cercando di costruire consensi di base che siano inclusivi, procedendo per accordi minimi fondati sul criterio che nessuno ha tutta la ragione né tutto il torto e occorre sempre prestare attenzione a quella parte di accordo che possa tenere insieme le varie posizioni. Promuovere una dinamica e uno spirito di apprendimento e azione reciproco implica una disposizione a condividere ciò che ognuno conosce, ma anche una disponibilità ad ascoltare e comprendere quello che altre e altri sanno: le progettualità, le idee, le istanze innovative.

 

Che significa condividere esperienze?

 

È importante perciò un’azione riflessiva critica e autocritica, che renda possibile non solo uno scambio di descrizione o racconto delle esperienze particolari, ma conduca a una condivisione degli insegnamenti che le esperienze stesse hanno lasciato. Questo compito, frutto di un processo di sistematizzazione è fondamentale, poiché permette la costruzione di un pensiero proprio condiviso a partire dai contributi di ognuno.

In tal senso, il lavoro in rete per l’attivismo di pace significa la costruzione di condizioni e disposizioni per l’apprendimento e l’azione nonviolenta.

Creare di fronte a ogni contesto, un ambito teorico che permetta la produzione di una conoscenza critica del vissuto: delle sue caratteristiche, interrelazioni, radici e esigenze. È molto importante promuovere processi e meccanismi di accumulo dell’esperienza: utilizzare registri e socializzare memorie di quanto è stato realizzato, riassumere gli accordi, lasciare una testimonianza delle valutazione dei progetti. Molte volte non compiendo tali operazioni si vanno a ripetere errori già fatti. Non si costruiscono nuovi gradini dai quali ripartire per rilanciare nuove sfide. Questa è la base per un processo di sistematizzazione delle esperienze, inteso come appropriazione critica del processo vissuto, per ricavarne i propri apprendimenti e le azioni specifiche su una determinata attività, e su molteplici iniziative in atto.

 

Il processo di attivismo non è lineare, né regolare, ma è asimmetrico e variabile. Perchè?

 

Il processo di costruzione del lavoro in rete per l’attivismo non è lineare, né regolare, ma è asimmetrico e variabile.

È fondamentale mantenere una dinamica comunicativa molto intensa, che alimenti la possibilità di restare in contatto, di apportare e ricevere contributi utilizzando tutte le forme e i mezzi possibili: scritti cartacei e elettronici, incontri personali, assemblee, riunioni, incontri, webinar per accomunare avvenimenti e socializzare proposte e decisioni. Occorre stare bene attenti: tutto ciò che si pratica deve essere trasparente nei confronti del collettivo, senza temere di evidenziare gli errori e le difficoltà.

Non può esistere lavoro per l’attivismo di pace se non è fondato sulla fiducia reciproca. Ma la fiducia non si concede gratuitamente, la fiducia si costruisce come parte di una relazione, di una sinergia, di un accordo e persino di modalità di affetto e sentimento che accomunano su ideali condivisi.

L’onestà, la franchezza e la disposizione alla critica consolidano le relazioni di una rete. Considero necessario poter contare su forme e istanze di animazione e coordinamento perché l’attivismo di pace non funziona da solo, ma come un prodotto di iniziative, proposte, relazioni, accordi e disaccordi che possono diventare strategie d’azione.

Quanto più distribuiti sono i compiti di animazione e coordinamento, con la maggior ripartizione possibile delle responsabilità, tanto più il lavoro in rete sarà dinamico e appartenente a tutti coloro che vi partecipano. Tuttavia avere linee guida o punti di riferimento è fondamentale per poter contare su legami di riferimento comuni. Legami forti, condivisi, di stima, amicizia, amore.

 

Legami forti, condivisi, di stima, amicizia, amore: legami di pace?

 

 

Credo nella relazione orizzontali, democratiche e reciprocamente esigenti, dove ognuno contribuisca in parità di condizioni, ma dove esistono anche dei ruoli di direzione, animazione, orientamento, articolazione e decisione.

Nel lavoro in rete circolano anche relazioni di potere, come in ogni ambito della vita. Ma queste relazioni di potere non devono essere le stesse che predominano nelle nostre società capitaliste, inique, escludenti, autoritarie, emarginanti e sopraffatte dal pensiero unico neoliberista. Possono essere relazioni di potere democratiche, sinergiche ovvero dove il potere di ognuno alimenti il potere degli altri e delle altre e dell’insieme nel suo complesso.

Relazioni di amore e legami di pace.

Dove le capacità si amplificano allo stesso modo per tutti e non solo per un gruppo che esercita e impone le sue decisioni.

Relazioni dove l’unione delle nostre capacità collettive offrano come risultato maggiore possibilità di azione di quelle che avremmo avuto singolarmente e grazie alle quali usciamo dall’incontro e dall’incarico arricchite e arricchiti da nuove risorse utili per affrontare i nuovi problemi e le complesse sfide.

 

La nostra crescita come persone, società, collettività e umanità. Tue riflessioni?

 

In sintesi l’attivismo implica una cultura e una visione di trasformazione e espressione. Per questo possiamo parlare della rete per la pace come di una cultura organizzativa. Ma non solo come nozione generale e teorica, ma come creazione quotidiana, che attraverso gli spazi di vita, la quotidianità dei rapporti e dell’esistenza, chiede di trarre da noi stessi il meglio che abbiamo, contribuendo così alla nostra stessa crescita come individui, come società, come collettività e umanità.

In tal modo, potremmo essere capaci di trasformarci come persone, nella misura in cui ci vedremo coinvolti in processi trasformatori delle relazioni sociali, economiche, politiche e culturali del contesto nel quale ci è toccato vivere.

 

Uniti affrontiamo le sfide globali della nostra epoca. Per arrivare dove?

 

Le sfide della nostra epoca sono immense e vanno oltre la lotta per la giustizia, l’equità, la pace, i diritti umani.

Questo XXI secolo, segnato da contraddizioni e dinamiche planetarie, marcato dal predominio di un modello economico, sociale, politico e culturale non universalizzabile, non sostenibile, chiede anche a quanti credono che “un altro mondo sia possibile” di lavorare con un’altra cultura politica e di costruire relazioni di potere non prevaricatrici, ma orizzontali, condivisibili e arricchenti, differenti in tutti i terreni in cui ci troviamo. Con un’altra etica, centrata sull’essere umano e una coscienza planetaria, il lavoro per la pace può diventare un’opzione efficace e efficiente per realizzare i cambiamenti a livello locale e globale.

Dal lavoro comunitario, con l’organizzazione settoriale, il consolidamento delle comunicazioni elettroniche con tutto il pianeta, l’articolazione di organizzazioni, istituzioni e movimenti sociali, il lavoro in rete si presenta come un’opportunità significativa per affrontare l’esclusione sociale, l’emarginazione, il disagio fisico e psichico, le difficoltà esistenziali e costruire cittadinanze globali e locali in qualunque angolo del pianeta.

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Arrivederci Piergiorgio! Arrivederci Direttore!

Ci ha lasciati Piergiorgio Cattani, Direttore di UNIMONDO

Arrivederci Piergiorgio! Arrivederci Direttore!

Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene.

Arrivederci caro Pier, Piergiorgio.

Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene. Siamo sconvolti ma consolati dalla tua vicinanza, anche adesso che fisicamente non ci sei. Nel nostro impegno per un mondo più equo e solidale continueremo sulle strade tracciate insieme, anche quando le difficoltà sembreranno insormontabili.

Perché ci hai sempre fatto capire che “niente sta scritto”.

Arrivederci Piergiorgio!

Gli amici e colleghi di Fondazione Fontana e Unimondo.

I collaboratori presenti e passati della tua redazione hanno voluto lasciarti alcuni ricordi: 

“Caro Piergiorgio, caro Direttore, Ti scrivo direttamente perché sono certo che, ovunque tu sia, mi leggerai. La rete internet dell’anima per uno come te, che ha dato linfa intellettuale e morale alla vita di tante persone, non si spegne mai. Non ci siamo mai incontrati di persona e in questo momento il rammarico é forte. Colpa della pandemia che da troppo tempo impedisce movimenti e incontri, o, forse, del “maktoub” (il destino) come prevale in un sentimento diffuso nella cultura araba del Maghreb, Regione dalla quale ti scrivo.  “Maktoub” é anche la tua improvvisa partenza verso nuovi lidi, che rattrista il cuore, ma che, sono certo, nel tempo rinfrancherà lo spirito, dei tanti che come me, non ti hanno conosciuto di persona, ma potranno usufruire di un lascito enorme: i tuoi scritti, i tuoi pensieri, le tue parole. In un periodo in cui c’é chi sostiene che gli anziani non sono più produttivi, sorrido riconoscente, quando penso che, dopo un primo articolo per Unimondo, che ti inviai circa 1 anno e ½ fa, non ti soffermasti alla mia età di pensionato settantenne, ma mi spronasti a continuare il racconto dell’area nord africana nella quale vivo. Non ci fu bisogno di tante parole fra di noi: l’intuito da Direttore ti fece capire subito il mio desiderio di porre in prosa quanto la mia decennale esperienza lavorativa e umana in questa area del mondo, aveva accumulato.Cosi é stato, e mi hai accolto nella redazione di Unimondo. Da allora é nata anche un’amicizia epistolare durante la quale non mi sono mai sentito “ vecchio”, ne , tanto meno, ho mai percepito la tua “disabilità” fisica, incapsulata come era in una vivida intelligenza e in una sottile ironia.  Il sapere porsi senza sovrapporsi. Arrivederci caro Direttore. Con affetto”. Ferruccio Bellicini

“Caro Direttore,proprio oggi le parole, queste nostre compagne di vita, mi hanno abbandonata. Avrei voluto scrivere qualcosa di te, per te, ma non riesco a dare forma al senso di vuoto nel saperti partito.È come se mi avessero rubato quella penna che tu, con pazienza e dedizione, mi stavi insegnando ad usare.Scrivere è un lavoro da artigiani. E tu mi stavi insegnando questo nobile mestiere, dandomi ciò che io per prima ho spesso mancato di avere: fiducia.Perché se c’è una cosa di te che ho sentito e ammirato fin dalla prima lettera è la tua fiducia per gli altri, di più, la tua fiducia per la vita.Oggi voglio pensare che gli incontri che facciamo non sono “per caso” e perciò ringrazio il tuo, il nostro giornale che ci ha fatti incontrare. Perché incontrare te è stato incontrare un esempio di come la vita vada vissuta pienamente, nonostante tutto. Non potrò più dirti grazie di persona, ma spero che il mio grazie ti arriverà, ovunque tu sia.Fai buon viaggio Direttore, le tue parole rimarranno scritte nei miei pensieri”. Maddalena D’Aquilio

“Piergiorgio Cattani non c’è più. Chiunque abbia vissuto a Trento sa bene chi fosse: un giornalista, un intellettuale; una voce importante, che aveva saputo farsi udire nonostante le difficoltà di espressione dovute alla malattia, la distrofia muscolare di Duchenne: patologia degenerativa che colpisce circa 6000 persone in Italia (e ne coinvolge ancora di più, tra parenti e sanitari). Se n’è andato all’improvviso, tra lo stupore di chi gli voleva bene e lo ammirava per la caparbietà e la lucidità di pensiero. Uno stupore che è autentica impresa, se si considera che Piergiorgio doveva essere già morto, e da tempo. Lo aveva raccontato lui stesso nel libro “Guarigione, un disabile in codice rosso” (Il Margine, 2015), lettura che consiglio. Chi è affetto da distrofia muscolare di Duchenne, infatti, raramente arriva ai 44 anni. Eppure, lui ci aveva illuso che fosse assolutamente normale e che potesse restare con noi per tanti anni ancora, alla faccia delle previsioni. Da parte mia resta la gratitudine per un uomo che mi ha indicato una direzione: fu lui, quand’ero all’università, ad avvicinarmi al giornalismo; passione che ha le sue radici nell’affetto per mio nonno Felice, anch’egli giornalista, ma che fino a quel momento era rimasta sopita. Quello che ha trasmesso a me sono sicuro lo abbia trasmesso a tanti altri, perché Piergiorgio era così: un uomo tutt’altro che involuto e ripiegato su se stesso come quel corpo martoriato, ma anzi proteso verso la comunità. Una comunità che ha saputo servire in molti modi: Unimondo.org, il quotidiano Il Trentino, l’attivismo politico; o forse nello stesso modo: con la fatica dello studio e l’entusiasmo di condividere con gli altri ciò che si è appreso. Se fosse qui, sono sicuro che riderrebbe di questo mio ricordo. Mi scriverebbe in privato per prendermi in giro. Non accadrà: gli uomini passano. A chi rimane tocca tenere viva la memoria e farsi carico delle battaglie”. Omar Bellicini

“Un abbraccio al grande Piergiorgio. Una preghiera”. Paolo Merlo

“Non so dirti quanto tu sia stato importante per me, un amico, un punto di riferimento e un esempio in tutti questi anni di lavoro assieme in quella piccola grande casa che è Unimondo. Una delle prime persone ad aver avuto fiducia in me e per questo non ti ringrazierò mai abbastanza. Mi mancherai Piergiorgio, è stata davvero una fortuna conoscerti”. Anna Toro

“Ogni tanto venivo a casa tua e parlavamo per un’ora. Ricordo l’accoglienza allegra dei tuoi genitori e le chiacchiere a tutto campo. Io ti chiedevo soprattutto dei tuoi studi in filosofia e dei libri che avevi scritto. Eri soprattutto tu, però, che mi facevi domande: ti informavi sul mio punto di vista in materia di religione, mi chiedevi cosa ne pensassi della politica italiana, della politica internazionale, della mia generazione, dei miei studi. Avevi solo dieci anni più di me, ma eri come quei personaggi illuminati che compaiono nei libri, quelli che ti aiutano a guardarti intorno e capire come funziona la società. Mi piace pensare di essere stato speciale, ma la verità è che facevi così con tutti. Nonostante tutte le difficoltà, usavi la tua libertà per dare fiducia a giovani insicuri, costruire relazioni umane e avviare progetti entusiasmanti.Ti dobbiamo moltissimo”. Lorenzo Piccoli

“Ciao Piergiorgio, vorrei dire, dirti e raccontare di te così tanto che non so da dove iniziare.Molti di noi vivono di parole… le mie, grazie a te, sono diventate più sicure e autentiche. Eri, sei, un maestro che sa essere rude, un uomo dal carattere spigoloso e mai domo, sei, su tutto, un amico sincero e dolcissimo, un amico vero. Sursum corda Pier! E ti prego, continua a seguirci, ne abbiamo bisogno. Grazie di tutto”. Fabio Pizzi

“A te, Piergiorgio, ci siamo visti, scritti poco ma sono stati incontri in presenza e/ o telematici di una grande profondità e scambio di idee e progetti insieme. Grazie perché sei stato per me un riferimento nella pedagogia della Curiosità come mi ha insegnato Paulo Freire. Grazie per il camminare insieme nel nostro modo di fare giornalismo indipendente, partecipativo e pieno di cittadinanza planetaria!I ragazzi dell’Agenzia di Stampa Giovanile ti ringraziano insieme a me per la tenerezza e gli insegnamenti!un abbraccio planetario”. Paulo Lima

“Non si é mai preparati a ricevere queste notizie. Ce ne sono tante di frivole e ridondanti che si ripetono sui giornali, tanti avvenimenti uno uguale all’altro. Questa é una di quelle che paralizza, che traccia una linea indelebile tra il passato e il presente. Quando mi é stato detto che Piergiorgio ci aveva lasciato non ci volevo credere. Come é possibile. Cosí giovane, colto, audace e sempre positivo con chiunque. Come tanti altri, credo, ci ho messo del tempo a capire che era successo veramente. Piergiorgio non ha mai voluto autocommiserarsi, e noi ci siamo sempre un pó “dimenticati” della sua malattia. Non c’era nulla di artificioso in tutto ció, era la cosa piú naturale del mondo. Una persona accogliente e calorosa, un affermato giornalista, attivo su mille fronti, nel sociale e nella politica, che bisogno c’è di soffermarsi sugli altri aspetti?Personalmente sono sempre stato colpito dalla tua enorme umanitá, dallo spirito profondo e acuto, mai banale, con cui accompagnavi i nostri scambi di email, e nei, ahimé rari, incontri di persona, in cui ce la siamo raccontata. Che ricordi. Trovavi sempre il modo di abbracciare simpatia e professionalitá, dote straordinaria per un direttore. Fin dal primo incontro – mi avevi avvertito solo pochi minuti prima della tua malattia degenerativa, e giá questo in qualche modo destabilizza – mi avevano sorpreso la caparbietá, l’animo nel pormi tante domande, la voglia di viaggiare insieme a me, ma anche la lucida e paziente capacitá di anticipare risposte che io ancora cercavo chissá dove. E poi un inaspettato pragmatismo, un’incredibile meticolositá nel lavoro: appena presentati mi hai chiesto di scrivere del Guatemala, dell’America Latina, di economia e finanza, di politica, di corruzione, addirittura di narcotraffico. Io non sapevo di poter scrivere, ma tu mi hai iniettato quella fiducia iniziale, mi hai sostenuto, hai scardinato antiche serrature e hai canalizzato il mio desiderio di espressione ed esplorazione. Hai reso possibile tutto ció. E te ne sono cosí grato. Mi hai accolto in UM e hai fatto germogliare tanti splendidi momenti e riflessioni. “Perché non scrivi un pó di bitcoin e blockchain”, la tua curiositá era pressoché illimitata, altro eterno insegnamento che ci hai trasmesso. Mi sento ingenuo per aver creduto che ció potesse durare per tanto tempo ancora. Che ci si potesse vedere piú avanti, approfondire, elevare la nostra amicizia, ricevere ancora tante dritte da te, in tutta calma, adesso che ero tornato stabile in Trentino. Mi sento ingenuo di aver procrastinato un’apertura verso tutto ció.Sono tanto triste, ma in realtá sono sicuro che saprai insegnarmi/insegnarci ancora tanto. Mi affascinano, come sempre, le tue parole: “nonostante le nostre fragilitá, possiamo scegliere di essere una risorsa per noi stessi e per gli altri; siamo tutti di passaggio e dobbiamo imparare ad usare l’ironia e l’autoironia, non come forma di consolazione, ma come percorso di consapevolezza, per provare a vivere seriamente, senza mai prendersi troppo sul serio.” Piú le leggo e piú mi viene voglia di leggerle agli altri. E piú mi rendo conto che mancherá il suo infaticabile contributo a questo mondo, il suo esempio. E noi staremo uniti per riempire questo vuoto.Ciao Piergiorgio. Grazie”. Marco Grisenti

“Oggi ci ha lasciato il grande amico Piergiorgio Cattani, Direttore di Unimondo. Aveva solo 44 anni. Una grave perdita per il Trentino e per tutti noi… Ti ricorderemo sempre per il tuo acume intellettivo, per la tua spiccata intelligenza e per la tua generosa bontà d’animo.Felice di collaborare con Unimondo e affranta per la perdita di una grande persona e un amico di arguta e rara intelligenza e spiccata bontà d’animo come Pier, Piergiorgio di cui non mi dimenticherò mai e noi tutti faremo tesoro della sua presenza che ci guiderà per sempre. A presto”. Laura Tussi

“Dovrei essere una “professionista” dell’uso della lingua, capaci di piegarla ai pensieri in testa e magari a dar loro forma. Eppure in queste circostanze è difficile per me scrivere qualche riga di interesse, sarà la tastiera arrugginita da un anno ormai di assenza dalla redazione di UM, o lo sgomento di aver pensato che Pier ci sarebbe stato ancora per tanto nella mia vita. Un’arroganza quella di pensare di rimandare incontri, scambi di pensieri e battute con quell’amico che era il trentino più ironico che ho mai conosciuto a un “domani” che poi è sfuggito, come oggi abbiamo visto. Grazie di quanto fatto, detto, scritto, …”. Miriam Rossi

“TESTAMENTO

 Quando se ne andrà il respiro piantate alberivoglio lasciare ossigeno:dai semi d’amore gettatinella terra buona tutt’intera un giorno la mia vita risorgerà.

Dalla raccolta “Azzurro e Polvere”,  di Piergiorgio Cattani

Ti auguro tanta luce Pier!” Francesca Bottari

“Mi aggiungo solo ora alle vostre parole, ma non ne ho tante da condividere. Un po’ per il groppo in gola che incastra la tastiera, un po’ perché avete già scritto tanto voi e mi sembra di rivedere Pier in ognuno dei vostri ricordi. Perché lui era proprio così, e anche se ciascun* di noi ha un pezzettino personale da aggiungere, alla fine ne esce sempre Pier, con quel suo sguardo sornione e perspicace sul mondo, quel suo modo di dare sempre un contributo prezioso, anche quando poteva risultare scomodo. Lui, che a molti di noi ha dato la possibilità di incamminarci su quella strada che aveva intravisto, prima che noi stessi ce ne accorgessimo. Ci mancherà eccome. E forse il nostro compito sarà proprio quello di continuare insieme a difendere questo suo progetto di costruire, piccole o grandi che fossero, comunità consapevoli, ironiche, mai sazie di curiosare e crescere nonostante tutto, e nonostante questo “tutto”, oggi, ci sembri ancora più pesante e insopportabile. Un abbraccio stretto”. Anna Molinari

Caro PGC,ho avuto anch’io la fortuna di collaborare con te scambiandoci peraltro il posto in Unimondo. Collaborare per modo di dire… perché non eravamo quasi mai d’accordo! Nello spazio del “quasi” ci sta il mondo! Come suonava il telefono rispondevo: “ogni cosa purché non sia politica”! E tu: “figurati; quando mai”! E il quando mai si trasformava in quasi sempre! Mi mancheranno anche i caffè a casa tua! Ce l’hai combinata proprio grossa, stavolta! Non so se ti perdoneremo! Non so se ti dimenticheremo!”. Fabio Pipinato

“Ci sei?” mi domandava ogni giorno, più volte al giorno. “Ci sei ancora?” mi domandava quando l’orario era buono ormai più per la cena che per il lavoro. Era a quell’ora che spesso mi diceva “Ho un’idea”. Qui io prendevo sempre un po’ paura, e lo sapeva, per questo mi rassicurava “Non ti preoccupare, tu non devi fare niente. Quasi niente”. Piergiorgio Cattani lavorava sempre, lavorava tanto, lavorava bene, lavorava più di me, perché conoscere e scrivere era la sua “terapia” e poi “Io sono fortunato – mi diceva – posso lavorare, mica devo andare a fare la spesa come te”. Per questo, a me che la spesa la dovevo fare, Pier “agitava” letteralmente la vita. Le sue idee diventavano incombenze, le sue riflessioni progetti, le sue intuizioni varianti variabili, buone per un’altra idea. Quando c’era il tempo e anche quando non c’era, il suo lavoro, dentro e fuori dalla redazione di Unimondo, diventava l’occasione per un confronto, un contraddittorio, una critica, una proposta, lo spunto per un suo editoriale, l’occasione per rivedere la bozza di un suo libro, per consigliarmene uno, per farsene consigliare un altro, “ma non romanzi però, saggi”. Spesso quando la sua vera passione, la politica e l’esperienza come presidente di Futura Trentino, gli lasciava ancora del tempo libero, la chiacchierata prendeva una piega teologica, poi filosofica, poi morale, e tra una citazione latina “vediamo se lo hai studiato bene al liceo…”, un ideogramma cinese e una frase in arabo, si concludeva con il link ad una canzone: Battiato, De André, Guccini, Gaber, De Gregori, Fossati, Brunori Sas, Einaudi, la musica classica… La sua curiosità e la sua vastissima cultura sono stati per me “pane quotidiano”. “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”, così ho fatto, in tutti questi anni e non posso che rendergli grazie. Gli rendo grazie anche per tutti i “Come stai?”, “Come va?”, “Tutto a posto?” e “Mangi?” che mi ha dedicato, non quelli di circostanza, voleva testare il mio benessere, come stava il mio morale e quello della sua redazione, non gli bastava un “bene”, voleva capirlo “in una scala da 1 a 10?”. E dopo il morale il fisico. Non c’è un solo stupidissimo acciacco patito del quale non mi abbia chiesto resoconto, cura, cartella clinica ed eventuale “Guarigione”, per me il suo libro più bello. Lui, che al mio “Come stai tu?” rispondeva “Sai che sono complicato”, mi ha insegnato, tra le altre, non solo e non tanto la tenacia e la voglia di vivere, ma a lamentarmi senza provare vergogna, a raccontare la montagna senza imbarazzo (“mandami una foto!” così, come fosse un ordine. E lo era!), perché la disabilità troppo spesso sta negli occhi di chi guarda. Nella vita poi “Niente sta scritto” e nonostante le nostre fragilità tutti possiamo scegliere di essere una risorsa per noi e per gli altri. Mentre io teorizzavo lui era già prassi. E non c’era tempo da perdere, bisognava farlo subito, farlo in fretta. “Pier, porta pazienza, non ti sto dietro”, sei un “modello di collaboratore” ma “sei lento – diceva prendendomi in giro – eppure vai a correre quasi tutte le sere”. Pier andava di fretta, sapeva come tutti noi di essere di passaggio, ma lo sapeva da prima, lo sapeva meglio. Anche per questo usava l’ironia e l’autoironia, non come forma di consolazione, ma come un percorso di consapevolezza, vivendo seriamente, ma senza mai prendersi troppo sul serio. Quattro anni fa mi scriveva “devo vivere almeno fino alla mancata rielezione di Trump”. Sabato sera era sollevato “non devo aspettare per forza un altro mandato”. Domenica se n’è andato e oggi è lunedì ed è il primo giorno di lavoro senza il “mio direttore” (anche se a volte si portava avanti già la domenica sera con un messaggio: “Scusa, so che è domenica… Ci sei?”). Mi mancherai e mi spaventa capire quanto, sul lavoro e fuori. Allora oggi mentre ti immagino volare “Su Vitebsk” e un po’ su di noi come in quel poster di Chagall che hai appeso in camera tua, prendo per un attimo il tuo posto e questa volta ti chiedo e mi chiedo: “Ci sei?”. Per fortuna in tutto quello che mi hai lasciato, che è molto più di quello che ho potuto darti, ci sei e per questo ti sono infinitamente grato! Adesso ti rimando l’ultima foto che mi hai chiesto, con quella tua solita urgenza “mi serve una foto autunnale”, e poi ci ascoltiamo una canzone. L’autore lo scegli tu, ma la canzone e gli interpreti questa volta li scelgo io, “E ti vengo a cercare. Anche solo per vederti o parlare. Perché ho bisogno della tua presenza. Per capire meglio la mia essenza…”. Inshallah PGC Piergiorgio Cattani, io non smetterò di cercarti, tu non smettere mai di farti trovare. Alessandro Graziadei

“Condivido con voi il mio dispiacere. Mi dispiace non essere riuscita a conoscere Piergiorgio di persona; mi avrebbe fatto molto piacere. Lo ringrazio dentro di me per avermi letta e per avermi dato la possibilità di dar voce ai miei pensieri. Di fatto, credo che mi abbia cambiato la vita…  arrivederci Piergiorgio”. Lucia Michelini

“Abbiamo parlato varie volte al telefono e attraverso brevi messaggi, ma l’ho incontrato solo una volta, a Trento per un piccolo convegno e anche quella volta il tempo per poter parlarci di persona (e non di lavoro) è stato breve. Per questo voglio ringraziarvi per le vostre testimonianze che – me ne rendo conto adesso – mi stanno facendo conoscere una persona con cui, pur essendo in contatto, di fatto non conoscevo. E che mancherà a tanti. Anche a me. Perchè – come ha scritto Ale – anche a me ogni tanto arrivava un suo messaggio per chiedermi “Ci sei? Come stai? Ti va di scrivere un articolo” e – lo confesso – l’ho sempre sentito come un messaggio di stimolo e apprezzamento. Ecco, forse non ho conosciuto Piergiorgio, ma una cosa posso dirla: credo che apprezzasse tutti noi, il nostro lavoro, il nostro impegno. Ma soprattutto ci apprezzava come persone. E questo penso sia il regalo più bello che ha fatto a noi e a tanti. Non ha chiesto “pietà”, ha dato dignità. Quella dignità che rivendicava per sè e per tutti, soprattutto per i più deboli e dimenticati.  Grazie Piergiorgio! Un forte abbraccio”. Giorgio Beretta

“Quella con Piergiorgio è stata un’amicizia di lavoro iniziata un decennio fa quando sono entrata in Fondazione Fontana e si è poi solidificata, anche se “virtualmente” considerate le distanze fisiche (Trento-Padova dove lavoro e Conegliano dove risiedo), da quando è diventato il Direttore di Unimondo. Me lo ricordo quel momento di passaggio. Pier ha saputo leggere ed intercettare il mio desiderio di continuare a “stare” in Africa anche se ero rientrata e le occasioni di fare ricerca sul campo sarebbero diminuite. E così è stato! Mi ha trascinato dentro riflessioni partendo sempre da domande scomode che mi aprivano gli occhi, ogni volta. Con lui non potevo permettermi di “rallentare”. Mi incalzava continuamente…dovevo rimanere aggiornata anche nei momenti più pieni. Incalzata, sollecitata, talvolta rimproverata per non riuscire a rispettare i tempi… “Piergiorgio, non ti sto dietro!”. Questo gli dicevo…  e poi giocava ad interrogarmi “Ma tu lo sapevi che…?”. E quante volte mi ha trovato impreparata!!Quattro anni fa abbiamo fatto Quarant’anni insieme. Sì, siamo della stessa classe. Io di marzo, lui di maggio 1976. Quella volta abbiamo “festeggiato” insieme, a casa sua, davanti ad una super torta. Me la ricordo ancora. In quell’occasione mi ha regalato un libro stupendo, “Resistenti. Storie di uomini e donne che hanno lottato per la giustizia” di Todorov. “Tra quei Resistenti ci sei anche tu, Piergiorgio Cattani. Uomo straordinario, studioso d’eccezione, pensatore, giornalista, direttore. Non ci credo ancora, ma domani mattina non sarà un lunedì come gli altri. Resisteremo, ce la faremo. Sarai sempre il nostro Direttore!” Questo breve messaggio l’ho scritto ieri. Questa mattina non è stato un lunedì come gli altri. Non è arrivata la domanda via Whatsapp “Ci sei?”… Ma vorrei dirti che”Ci sono e che scriverò i pezzi che non ho ancora scritto!”. Sara Bin

“… è strano vivere in un mondo senza Pier. Provo un po’ di (sano) smarrimento: abbiamo condiviso progetti, sogni, idee, momenti di confronto – perché lui così faceva – non solo con me, ma con tutti e tutte. Era un punto di riferimento come pochi nella vita; e c’è da essere grati per il tempo che abbiamo avuto a disposizione con lui.  Adesso sì, tocca a noi raccogliere il testimone e andare avanti. Domani però, o magari dopodomani: il tempo di smaltire il dolore. Forse non così in fretta come avrebbe fatto lui, ma si sa, di Pier ce n’era uno. Novella Benedetti

Grazie per tutti questi ricordi affettuosi. Anche se a volte non ne condividevo pienamente le posizioni, ammiravo molto la lucidità e l’intelligenza brillante di Pier. L’ultima volta l’ho visto tre anni fa, in occasione del suo compleanno, con una torta e tante persone a condividere un momento di festa nel giardino di casa sua, alla vigilia della mia partenza per una nuova avventura in Portogallo. Ed era curioso e sempre mi chiedeva “dove sei adesso”? Perché dov’ero, da quando l’ho conosciuto, non era mai scontato, nemmeno per me.  Ma é soprattutto attraverso i racconti del mio caro amico Ale che ho conosciuto tanti aspetti del suo carattere, come la sua insofferenza verso chi lo trattava con pietismo per la sua condizione fisica (memorabile l’episodio delle suore), la sua meravigliosa pungente ironia e l’immensa vastità delle sue conoscenze. E quindi é anche Ale che ringrazio, per avermi regalato pezzettini di Pier, che per me e per tutt* noi resteranno sempre vivi. abbracci. Michela Giovannini

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Noi abbiamo un sogno

Per una nuova educazione

Noi abbiamo un sogno

Vogliamo recuperare l’immaginazione e la creatività di cui abbiamo tanto bisogno a scuola.
Occorre tornare a essere importanti per il futuro di coloro che erediteranno madre terra.
Laura Tussi

La scuola. Questa nostra scuola gerarchizzata che ancora mantiene ruoli inammissibili, autoritari, che derivano dalla realtà di una società afflitta da innumerevoli degenerazioni psichiche.

Questa scuola nella quale l’unica cosa che dobbiamo fare è insegnare a addizionare e sottrarre.

La scuola e i suoi metodi di insegnamento. La Chiesa e i suoi metodi di controllo.

Di sicuro c’è che la scuola è in crisi. Naturalmente è un’opinione personale, sebbene condivisa da molti. E questa crisi è molto più profonda e difficile da gestire di quelle economica, poiché quel che accade alla scuola è un riflesso fedele di quanto sta avvenendo nel nostro mondo. Un mondo diseguale. Ingiusto.

Un mondo nel quale l’individualismo, il materialismo si antepongono a un valore necessario indispensabile: l’umanità. La scuola rimane estranea a tutti questi problemi. È ancorata a una metodologia arcaica e superata nella quale primeggia maggiormente una aberrante burocrazia rispetto a un compito delicato e sempre più sottovalutato: quello di educare. Una scuola disorganizzata che non si degna di rispondere ai bisogni provenienti da un mondo in mutazione plurale, che deve far fronte a problematiche ogni giorno più complesse. Una scuola raffazzonata che compie continue riforme educative senza andare alla radice del problema perché per questo non vi è mai tempo. Una scuola normale?

Nel cosiddetto “villaggio globale” scopriamo che la nostra scuola si guarda allo specchio della società violenta e competitiva. E anche qui i conflitti si risolvono con l’aggressività. E la violenza è implicita in ogni parola che pronunciamo perché è sempre stato così: un modo ereditato dai potenti. È in definitiva una scuola sottomessa all’onnipotente libro di testo, pressante, eccessivo. Il bisogno di offrire ai nostri studenti uno sguardo diverso sul mondo differente da quello che ci mostrano i mezzi di comunicazione: stereotipato e parziale. Cerchiamo il modo tramite cui gli studenti così giovani con i loro anni sono capaci di comprendere quello che risulta incomprensibile: l’ingiustizia sociale, la fame, la distribuzione disuguale della ricchezza, l’impatto dell’uomo e le conseguenze per il pianeta. Attraverso la realtà cerchiamo di collegarli con situazioni differenti per farli sentire speciali.

Vogliamo che siano loro i protagonisti del cambiamento per una volta, attori indispensabili per terminare l’opera. Oltre l’aula è possibile comprendere gli altri, trasmettere umanità. Vogliamo aprire agli studenti le porte del mondo e avvicinare tutta la sua bellezza. Vogliamo recuperare l’immaginazione e la creatività di cui abbiamo tanto bisogno a scuola.

Tornare a essere. Essere importanti per loro, per i nostri figli indifesi di fronte a una società che li considera pregiudizialmente degli idioti, incapaci di discernere tra il giusto e l’ingiusto. Che li soppesa sulla bilancia perché valgono solo per ciò che consumano. I figli e i nostri nipoti che erediteranno madre terra.Ereditare la Terra, costruire una nuova educazione

Questo ci proponiamo. Non possiamo affermare che lo abbiamo realizzato pienamente. Non ci siamo nemmeno sempre sentiti compresi. Non siamo stati capaci di condividere con gli altri il compito. Noi docenti non condividiamo sempre la stessa visione del mondo, ma siamo condannati a imparare a lavorare insieme e è il nostro esame pendente perché tutti facciamo parte della soluzione del problema, famiglia e scuola. Le strutture del sistema scolastico sono troppo radicate e resistono al cambiamento.

Tentando di costruire, finiamo di distruggere perché riproduciamo nelle nostre classi gli stessi schemi che troviamo nella società per finire col soffrire dei suoi stessi mali.

Servirebbero anni per riconoscere tutto ciò che non funziona in questa nostra scuola, quella che indottrina. La scuola del controllo sociale. Un fine così opposto a quello di riuscire a far cambiare ai nostri studenti lo sguardo che hanno sul mondo. Ed è inevitabile concentrarsi più sul cammino che sulla meta. Certamente qualcosa abbiamo ottenuto.

Siamo riusciti a far loro comprendere che esistono realtà distinte e persone diverse. Che siamo differenti. Le nostre diversità. Un qualcosa che non succede tutti i giorni nelle nostre classi: alla fine prima di tutto una persona andrà a far parte dell’universo emozionale dello studente trascinandosi così tanto i suoi difetti quanto le sue generalità.

Ci resta molto cammino da percorrere. E cosa ci importa se non disponiamo di tutte le risorse, di tutte le certezze: siamo nel posto giusto. Una scuola nuova e necessaria e imprescindibile. Tornare a sognare con un percorso differente. Un futuro alternativo.

Un altro mondo è possibile. Noi abbiamo un sogno. Di questo si tratta.

 

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Intervista a una giovane attivista per la Palestina: Vane Marinello

Un messaggio di pace, solidarietà e uguaglianza tra esseri umani

Intervista a una giovane attivista per la Palestina: Vane Marinello

“Sono arrivata ad un punto in cui non riuscivo più a stare zitta. Continuavo a pensarci e mi sono detta bisogna cogliere l’opportunità di cambiare qualcosa. Così ho cominciato a studiare, a leggere e informarmi, ad usare i social per comunicare, per far capire e informare le persone.
su PeaceLink: https://www.peacelink.it/ospiti/a/47978.html

L'impegno per la PalestinaQuali motivi ti hanno reso un’attivista per la Palestina?

“Perché lo fai? Come hai iniziato?” Sono mesi che mi rivolgono queste domande; sicuramente e purtroppo non è cosa comune interessarsi a certi argomenti come la Palestina.
Non sono cresciuta con queste idee; in proposito la società odierna non ti dirà mai cosa è successo, non ti racconterà mai la storia com’è andata veramente.

Tu collabori con molte associazioni per la Pace nel mondo e ti occupi di divulgazione sui social; qual è la tua esperienza?

Sono nata ad Aosta il 17 marzo del 1994 e mi sono diplomata nel sociale, in scienze sociali. Dopo un’infanzia e un’adolescenza travagliata sono partita per l’estero perché volevo viaggiare. Dall’Egitto alla Turchia dal Vietnam alle Canarie alla Tunisia. Ho conosciuto nazionalità, culture e lingue diverse. Ho iniziato a lavorare come Animatrice e nelle Relazioni pubbliche di vari hotel ma ascoltando lamentele futili per cose inutili 24 ore su 24, ho cominciato a riflettere su cosa è davvero importante nella vita.
Il mio ultimo viaggio nel febbraio del 2020 è stato proprio in Vietnam, con l’associazione “Volunteers for Peace Vietnam”: è un’organizzazione di volontariato senza scopo di lucro fondata nel 2005 con l’obiettivo di promuovere il volontariato come mezzo di scambio culturale ed educativo tra le persone per generare pace e amicizia, e come approccio per affrontare le questioni sociali. La visione di VPV è un mondo di pace, in cui tutte le persone convivono con rispetto reciproco, hanno pari opportunità per svilupparsi al massimo del loro potenziale e hanno rispetto per l’ambiente.
Questo il sito di riferimento: http://www.vpv.vn/
Con un gruppo di ragazz*, per un mese, nella zona di Sapa, abbiamo aiutato a costruire una scuola per le/i bambin delle elementari, vivendo assieme, preparando piatti tipici del posto, giocando con loro.

Perché la Palestina?

La parola Palestina non è mai facile da pronunciare, come non è facile essere donna e parlare di politica. Dicono che una delle cose più importanti per farsi accettare dalla società è di non imporre le tue idee politiche sulla gente. Ce lo inculcano fin da subito. Durante la mia vita, ho sempre sentito gente dire “stanne fuori, non immischiarti in politica e nell’attivismo perché una brava ragazza non impone le sue opinioni sugli altri; una brava ragazza sorride saluta e dice grazie! Una brava ragazza non mette a disagio le/gli altr* con le proprie opinioni”.
Sono arrivata ad un punto in cui non riuscivo più a stare zitta. Continuavo a pensarci e mi sono detta “la prossima volta che hai l’opportunità di cambiare qualcosa devi coglierla, sapendo cosa e chi vuoi rappresentare e che cosa vuoi dire”.
Così ho cominciato a studiare, a leggere e informarmi, ad usare i social per comunicare, un messaggio di pace, solidarietà e uguaglianza tra esseri umani per far capire e informare le persone.
Infatti, non basta dire “sono di destra o di sinistra” per sentito dire, ma occorre farsi una propria opinione politica studiando e leggendo senza farsi influenzare nel pensiero e nelle scelte.

Quali sono stati i tuoi riferimenti più importanti?

Rispetto alla Palestina, sono grata a un amico esperto della materia, che mi ha introdotto nell’argomento perché, come accennavo prima, conoscere la storia moderna della Palestina non è purtroppo una cosa scontata. Mi è bastata una serata di approfondimento e l’ascolto di molte storie per innamorarmi della questione, iniziare a studiare e informarmi.
Il mio primo libro è stato “Gaza. Restiamo Umani” del grande Vittorio Arrigoni (Manifestolibri, 2011) e dopo aver letto un libro così non puoi assolutamente rimanere indifferente. Volevo impegnarmi e dopo qualche ricerca ho contattato la magnifica associazione “Gaza Freestyle Festival” che opera nella Striscia Di Gaza dove ha in costruzione una rampa da skateboard per le/i Gazaw* e d’insegnare varie arti e attività sportive, come fotografia, calcio e altro. Il Covid-19 ha rimandato la mia partenza e nell’attesa di realizzarla mi sto dedicando alla divulgazione, anche nelle piazze, durante le manifestazioni, della questione palestinese.
Sono un’attivista di “Giovani e Palestina” che fa parte dei Giovani Palestinesi d’Italia.
Questo il Link di riferimento: https://www.facebook.com/giovanipalestinesi.italia/
Scrivo ogni tanto degli articoli per la pagina Facebook dei “Giovani palestinesi d’Italia”: un’associazione indipendente di ragazz* palestinesi o di origine palestinese presenti in tutta Italia. Penso che sia importante continuare a parlare della causa palestinese perché in mezzo a tutte le censure noi non molliamo; questa è una cosa che ho imparato dal popolo palestinese, la resilienza nonostante tutto.

Quali sono i tuoi programmi e quelli della tua associazione?

Non sento ancora la necessità di sistemarmi (di lavorare e di avere un lavoro fisso) e di fermarmi in un posto. Mi piace cambiare, conoscere sempre gente nuova e moltiplicare le esperienze.
Sono sicura che, la Palestina un giorno sarà libera, ma nel frattempo dobbiamo continuare a parlarne.
Da quando ho iniziato ad usare i social, per la causa palestinese, ho ricevuto molti messaggi di ringraziamento da chi non la conosceva e che adesso, grazie alle nostre parole, conosce e ne è più cosciente. Non dobbiamo aver paura di parlare e raccontare le cose come stanno. Dobbiamo manifestare e urlare i nostri pensieri. Dobbiamo batterci per la libertà della Palestina perché non c’è cosa più resiliente e meravigliosa del popolo Palestinese. Dobbiamo difendere i giusti livelli di informazione che esistono nella nostra società, dobbiamo parlare di politica. Voglio essere d’aiuto e ringraziare chi mi ha ispirato: voglio essere d’aiuto alla causa palestinese, non stare zitta; battermi, continuare a parlare nonostante mi si chieda di chiudere la bocca ed essere “una brava ragazza”.

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Invicta Palestina – Moni Ovadia: il dialogo per la pace

Il Centro di Documentazione Invicta Palestina propone l’intervista a Moni Ovadia

Invicta Palestina – Moni Ovadia: il dialogo per la pace

Presentazione dell’intervista a Moni Ovadia di Laura Tussi
Laura Tussi19 maggio 2020

Intervista a Moni Ovadia di Laura Tussi su Invicta Palestina

Moni Ovadia si ricollega e riflette sul tema di Agenda Onu 2030 – Obiettivo “Pace, Giustizia e Istituzioni solide” con molteplici spunti di approfondimento nonché analizzando la vignetta dell’acuto vignettista Vauro che ritrae un padre e un figlio palestinesi a Gaza. 

In una vignetta del mio amico Vauro, i missili israeliani piovono da tutte le parti. Il bambino dice a suo padre: “Papà ho paura” il padre risponde: “Perché hai paura? Non siamo mica a New York”. Noi abbiamo tolto a una parte dell’umanità persino il diritto alla paura. Abbiamo visto milioni di volte la ripetizione dell’efferatezza che ha portato alla distruzione delle Torri Gemelle con 2890 morti circa, ma non abbiamo visto con la stessa frequenza le immagini dei morti innocenti iracheni e afghani delle cosiddette “guerre umanitarie”.

Parto da questa considerazione perché ci sono paesi i cui governi, ma anche una parte considerevole dei cittadini, sono gravati – anche se la parola è impropria – dalla logica del privilegio, ossia che noi abbiamo diritto a essere come siamo, non è un privilegio dovuto al luogo di nascita.

Che merito abbiamo per essere nati in un posto invece di un altro? Nessuno. 

Non esiste un merito. Infatti anche Mimmo Lucano e Alex Zanotelli dicono di non chiedere mai a una persona da dove viene: “L’ha portata il vento”…

La legalità internazionale è stata, da parte di ripetuti governi israeliani, calpestata con una indecenza che non ha limiti. Consideriamo che nessun governo israeliano ha fatto quello che doveva essere il dovere sacrale di un governo democratico, ossia stabilire i confini dello Stato di cui quel governo è governo. Lo Stato di Israele non ha una costituzione. Quindi non ha stabilito i suoi confini. Per cui l’arbitrio è la regola in tutte le cose che riguardano il conflitto israelo-palestinese. In particolare, il conflitto con i paesi arabi ha altre modalità ancorché si basa comunque su questa politica dello stato dei fatti compiuti. Politica del totale dispregio per le risoluzioni internazionali e, conseguentemente, per le istituzioni internazionali preposte alla pace. E tutto questo ad opera del governo e dell’autorità militare di un paese in cui il saluto comune è pace, invece di dire “Ciao”, “Buongiorno” si dice “Shalom” cioè Pace. La pace è addirittura iscritta nelle priorità della lingua.

Nei Link l’intervista a Moni Ovadia di Laura Tussi: testi integrali

https://www.peacelink.it/pace/a/47552.html

https://www.peacelink.it/ospiti/a/47600.html

su Invicta Palestina: Centro di Documentazione sulla Storia, Cultura, Tradizioni della Palestina

https://www.invictapalestina.org/archives/38974

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Pace è Resistenza, resilienza, disarmo, nonviolenza e l’Onu con l’Unesco il suo mezzo attuativo

Pace nelle tue mani

Il termine pace dal latino pactum, pacere, ossia accordo prevede un’intesa che va oltre gli schematismi imposti dal sistema neoliberista e omologante. L’accordo, la pace sono modelli e metodi di intesa e di comunicazione innanzitutto nella duplicità dell’essere umani, ossia nel genere donna e uomo, femminile e maschile e anche nei percorsi transgender, omosessuali e transessuali, dove l’accordo e la pace e l’intesa sono sempre forme di resistenza e resilienza alle difficoltà imposte dal quotidiano. E soprattutto pace e resilienza rispetto ai molteplici problemi, come emergenze e minacce, che incombono sull’umanità, dalla paura delle pandemie, al terrore delle apocalissi nucleari all’indigenza e alla povertà che colpiscono gran parte dell’umanità, nella disuguaglianza sociale globale, dove l’1% della popolazione mondiale detiene il 99% dei beni comuni dell’umanità.

Pace è la parola ecumenica che accomuna le più varie culture del pianeta, le differenti popolazioni, minoranze genti, etnie, con i rispettivi culti, credi, fedi, religioni, che da un punto di vista agnostico rappresentano un dato culturale imprescindibile più che una visione cultuale, più che una presa di posizione di credo e di culto teologicamente e teoreticamente parlando. Infatti noi osserviamo la relazione e il dialogo tra fedi e religioni da un punto di vista fenomenologico, studiando e classificando i fenomeni appunto, l’evidenza dei fatti, degli eventi come si manifestano all’esperienza nel tempo e nello spazio. L’interscambio di incontro tra culture lo consideriamo un evento fenomenologico come avviene con il modello Riace. Un modello locale che diventa globale, ossia glocale, che dal particolare si apre all’universale, come specifico fenomenologico di interazione di culti e culture nella pace, nell’armonia, nell’equilibrio e nell’accordo: un patto tra gli esseri umani e madre terra. In un’ottica universalistica, in una visione di terrestrita’ circostante e dell’esistente, Riace come sinonimo e modello di pace potrebbe rientrare in una base pratica di coosviluppo tra nord e sud del mondo per risolvere i grandi problemi, le gravi emergenze e minacce del nucleare, della disuguaglianza sociale globale e dei dissesti climatici. Questi sono i grandi i ‘virus’ che infettano l’umanità e nostra madre terra. Le lobby mortifere del nucleare detengono un sistema sociale mondiale ingiusto dove un miliardo di persone vivono con due dollari al giorno e 821 milioni soffrono la fame. Le migrazioni sono causate da tutte queste sperequazione e dalle carestie, dal terrorismo, dalla guerra, dai disastri e dissesti ecologici e climatici e dalle manovre economiche.

Riace che fa rima con pace ha saputo conciliare in un piccolo borgo tutte queste contraddizioni, e questi virus e piaghe per l’umanità intera che è figlia di un villaggio globale, di una madre terra che il genere umano deve tutelare e salvaguardare dall’estinzione.

Per questo usiamo il motto Riace è la pace. Come microcosmo e crogiolo di bellezza, dove l’immagine estetica di colori, sguardi, volti, musica, odori e sapori producono il bello estetico, non estetizzante e fine a se stesso, ma una bellezza di cromie che salverà il mondo. Riace è la pace per l’umanità.

L’Agenda ONU 2030 pone nell’obiettivo pace, giustizia e istituzioni solide, vale a dire i cardini di questo patto stabilito tra gli uomini: un patto di pace che è sancito in tutte le carte della terra e nelle costituzioni e istituzioni nate dopo il grande trauma della seconda guerra mondiale. Dopo questo grande trauma, con un sussulto positivo di speranza, dalla resistenza partigiana antifascista, sono nate le grandi dichiarazioni dei diritti umani, l’ONU e da quest’ultima le cop per il clima a partire dal grande summit di Rio de Janeiro nel 1992. E non dimentichiamo il TPAN, ossia il trattato ONU varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata nella campagna per l’abolizione degli ordigni nucleari Ican. Questo trattato Onu è stato una svolta per l’umanità e per il concetto pacifista e il movimento nonviolento: un passo mondiale imprescindibile per il disarmo nucleare universale che è valso a tutti gli attivisti e alle associazioni per la pace e per il disarmo nucleare che operano in Italia e in tutto il mondo il premio Nobel per la pace 2017.

Fare pedagogia della memoria, fare pedagogia della pace è quanto mai urgente e necessario in un mondo globalizzato che annienta e annulla gli ultimi per promuovere i più forti e i potenti.

 

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Gaia – Epidemiologia della guerra infinita

Recensione di Laura Tussi al Libro di Maurizio Marchi

Gaia – Epidemiologia della guerra infinita

Gaia: Ecoistituto del Veneto Alex Langer – Recensione di Laura Tussi: 82 conflitti tra il 1945 e il 2015, altro che pace

Gaia

Il Libro di Maurizio Marchi è realizzato con l’intento e con la volontà di abolire le guerre.

Il libro “Epidemiologia della guerra infinita. 82 conflitti tra il 1945 e il 2015” dello scrittore Maurizio Marchi è realizzato con l’intento e con la volontà di abolire le guerre ovunque vengano innescate dall’apparato, sistema e complesso industriale, militare e fossile e di disvelare la mitologia guerrafondaia e la politica del riarmo che la NATO propugna in quanto istituzione che, come millanta il potere e come vantano in maniera infondata i poteri forti, avrebbe garantito la pace dopo la seconda guerra mondiale fino ai giorni attuali. Infatti non si trova nella stampa cartacea e in Internet un libro, come questo, che possa elencare e che abbia i contenuti adeguati a effettuare e compilare una ricognizione dei conflitti armati e delle guerre nel mondo dal dopoguerra al periodo contemporaneo e attuale. Da un’intervista di Pax Christi, l’autore Maurizio Marchi afferma che scrivendo questo libro, che risulta costituire un’autentica ricerca dettagliata, un esaustivo compendio storiografico, ha imparato molto e è riuscito a entrare a conoscenza di realtà spesso ignorate dai massmedia tradizionali e censurate dai mainstream ortodossi. Marchi ha potuto focalizzare e appurare che sono avvenuti ben 82 conflitti tra il 1945 e il 2015, con 24 milioni di morti diretti, cioè deceduti a causa delle armi utilizzate nelle guerre, ossia violenza diretta e altrettante persone decedute per epidemie, esodi forzati di massa, inquinamento di grandi territori, carestie: quindi l’equivalente di un genocidio e di una ecatombe equiparabili a quelli della seconda guerra mondiale 1939/1945. Ma tutte le istituzioni e i politici di governo parlano invece di settant’anni di pace.Gaia Rivista dell'Ecoistituto del Veneto Alex Langer

Secondo l’opinione dello scrittore Maurizio Marchi, attivista di Medicina Democratica, ampiamente condivisa da tutti noi ecopacifisti per il disarmo nucleare unilaterale e per l’abolizione degli ordigni di distruzione di massa soprattutto nucleari, la guerra costituisce la “nocività assoluta” in quanto comporta i cosiddetti effetti collaterali sulle persone come la miseria, la malnutrizione e la fame, che conducono alla morte per stenti. Il presidente Mattarella nell’aprile 2019 in occasione del settantennale della fondazione della Nato, afferma che quest’istituzione ha garantito settant’anni di pace. Questa è un’affermazione basata su un dato falso. È un sillogismo errato. La Nato ha garantito una finta stabilità, un assetto sicuro, una pace surrettizia a una piccola parte dell’umanità ossia all’umanità che sta sotto l’egida della Nato, i paesi europei e la Turchia. Al contrario, ben 6 miliardi di persone sono vittime e hanno subito guerre atroci e devastanti e fatali. Le malattie più diffuse e connesse alla guerra possono essere anche semplici stati di raffreddamento, semplici disagi e banali patologie. Infatti quando i bambini e anche gli adulti sono malnutriti, addirittura il freddo e i virus presenti nell’aria possono essere letali. Oltre alle morti per violenza armata, le guerre distruggono e annientano l’ecosistema, l’ambiente e la salute delle popolazioni e degli stessi militari. Infatti sulle vittime da uranio impoverito, possiamo segnalare lo studio dell’epidemiologo Valerio Gennaro “incidenza di tumori maligni 1996-2012 in giovani militari italiani inviati in missione all’estero. Analisi preliminare dei dati della commissione parlamentare di inchiesta su uranio impoverito e vaccini” che quantifica molteplici, addirittura migliaia, casi di tumore. Il dato andrebbe esteso a tutti i militari, di qualsiasi nazionalità, coinvolti nelle guerre più recenti, in particolare in Jugoslavia, in Libia e soprattutto alle persone che hanno subito bombardamenti con questi proiettili devastanti e letali. Si contano un centinaio di migliaia di casi di tumori e altre patologie. Inoltre, interi territori sono dichiarati inagibili per le sostanze tossiche dei bombardamenti. Lo spargimento di altre sostanze tossiche, radioattive e chimiche, come l’agente Orange in Vietnam e la raffineria di Belgrado, comportano e comporteranno altre centinaia di migliaia di malformazioni e vittime in tutto il mondo (Cfr. “Il problema del cancro a Gaza” di Filippo Bianchetti, medico di base, Varese; Flavia Donati, psichiatra e psicoanalista, Roma; Fiorella Gazzetta, medico di base, Varese; Laura Franceschini, psichiatra, Imperia; Loretta Mussi, medico in pensione; Rosa Raucci, Direttore Pronto Soccorso di Aversa; Khaled Rawash, medico di base e criminologo, Imperia; Khader Tamimi, pediatra di base, Rho (MI) https://www.peacelink.it/palestina/a/46319.html). Il calcolo e la stima delle vittime indirette è molto più difficile, perché quando il conflitto armato è terminato e non “fa più notizia” e si spengono i riflettori sulla popolazione civile, le sostanze tossiche, chimiche e radioattive, le carestie ed epidemie continuano a mietere vittime anche se non hanno più incidenza e rilevanza cronachistica dettata e riportata dai massmedia tradizionali. Le guerre in Africa hanno causato la morte di 5 milioni di bambini e di 3 milioni con meno di un anno di vita. Uno studio recente pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet, frutto della ricerca di un team guidato dal Dottor Eran Bendavid della Stanford University in California, nel settembre 2018, sostiene l’assoluta veridicità di questa situazione drammatica in Africa. Si possono stimare 24 milioni di vittime, morti indiretti e non solo bambini nel periodo del dopoguerra dal 1945 al 2015 in tutto il mondo. Questi dati drammatici e di tragica evidenza sono riportati all’attenzione di un pubblico più vasto e attento grazie al libro “Epidemiologia della guerra infinita” di Maurizio Marchi. 

“Epidemiologia della guerra infinita”  giugno 2019 https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/515601/epidemiologia-della-guerra-infinita-2/     82 conflitti in tempi “di pace” tra il 1945 e il 2015 con 24 milioni di morti diretti più almeno altrettanti per carestie, epidemie, esodi forzati di massa (profughi), inquinamento di immensi territori, 600 pagine

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Emergenza e pace: un messaggio di speranza guardando al futuro

Intervista a Gianmarco Pisa

Emergenza e pace: un messaggio di speranza guardando al futuro

Ne parliamo con Gianmarco Pisa, operatore di pace, segretario dell’IPRI – CCP, l’Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace
a cura di Laura Tussi e Fabrizio Cracolici

Intervista a Gianmarco Pisa

https://www.peacelink.it/pace/a/47471.html

Il mondo si scopre improvvisamente colpito da un virus che sta letteralmente cambiando il modo di vivere e di concepire la vita della stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta. L’emergenza ci pone dei quesiti, in ampia misura, inediti, sulla nostra salute, sulle nostre società, sul nostro stile di vita; ma ci impone anche di ripensare ad alcune nostre scelte, e di guardare al mondo nella prospettiva dell’eco-sistema, di Gaia. Quali idee possiamo condividere, quali proposte possiamo avanzare nella situazione della crisi e per il futuro? Ne parliamo con Gianmarco Pisa, operatore di pace, segretario dell’IPRI – CCP, l’Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Corpi Civili di Pace.

 

Quali pratiche occorre attivare per risolvere a livello planetario emergenze che sempre più coinvolgono l’intera umanità?

 

Non c’è dubbio che l’emergenza epidemiologica legata alla diffusione del contagio da coronavirus abbia scatenato effetti su scala mondiale: è un effetto in sé legato alle modalità del contagio, ma è anche una conseguenza di un fatto che, invece, è in sé positivo, la cosiddetta “interconnessione dello spazio-mondo”. Ciò comporta anche l’esigenza, tuttavia, di un cambio di “sguardo”, prima ancora che di un cambio di “paradigma”, sul mondo: l’attuale situazione di crisi e di emergenza, come sempre di fronte alle grandi emergenze planetarie, ci spinge a ragionare e ad agire in termini di un “mondo unito”, proprio perché interconnesso, quindi in ottica eco-sistemica. Siamo tutti e tutte parte di un unico eco-sistema e come la rottura dell’equilibrio in un punto di questo “sistema” scatena ripercussioni, dirette o indirette, su qualsiasi altro punto, così il tipo di risposte che proviamo a offrire dovrebbero porsi all’altezza di questa esigenza, scalare la dimensione planetaria, immaginare un diverso modo di produzione e un differente sistema di relazioni a livello generale. Anche perché questo tema va anche letto tra le righe: hanno ripetuto come un mantra, per decenni, nelle ricche metropoli dell’Occidente, che «il nostro stile di vita non è negoziabile», oggi siamo tutti alla prese con la riformulazione, non sempre in positivo, di pratiche che davamo per scontate.

 

Come l’umanità deve attivarsi per invertire questa rotta e per ricominciare a costruire una socialità vicina alle esigenze e necessità di una madre terra sempre più in difficoltà?

 

La questione, insieme, sociale e democratica, mi sembra, in uno ovviamente con l’emergenza sanitaria, la più scottante. Abbiamo cioè di fronte tre grandi sfide. In primo luogo, sul versante sanitario, dove le strutture ospedaliere e il personale sanitario profondono uno sforzo quotidiano per contenere la diffusione del contagio e prestare le cure necessarie alle persone. Quindi, sul versante civile, dove la necessaria esigenza delle misure di contenimento del contagio va accompagnata alla altrettanto necessaria esigenza di implementare tutte le misure restrittive entro i limiti rigorosi del nostro dettato costituzionale e della piena conformità democratica. E, in definitiva, sul versante economico e sociale, soprattutto in riferimento a quegli strumenti che le autorità pubbliche hanno messo a disposizione per fare fronte a situazioni di bisogno, povertà e, in taluni casi, vera e propria deprivazione, che la situazione di emergenza sta facendo, spesso drammaticamente, emergere. Alcune risposte sono necessarie e non più derogabili: l’esigenza di sistemi sanitari pubblici, statali, adeguatamente finanziati, organizzati e attrezzati, nello sfondo, più complessivo, di un sistema di protezione sociale universalistico; il rilancio del tema, cruciale, di una programmazione economica democratica, che ponga a tema non solo l’esigenza di politiche economiche espansive e di finanziamenti consistenti per le politiche sociali, ma anche il cimento di un orientamento pubblico, con una regia statale, della produzione e degli investimenti, rispondendo ai quesiti classici del “cosa”, “come” e “quanto” produrre. E, chiaramente, la difesa della democrazia, di una democrazia sostanziale, nel senso sempre di «tutti i diritti umani per tutti e per tutte». Quanto sta accadendo, proprio in queste ore, in Ungheria, non può non suscitare un vero e proprio allarme democratico.

 

Le spese militari nel mondo aumentano e i servizi sanitari vengono drasticamente ridotti.

Come attivarsi per un’inversione di questa tendenza?

 

L’incremento esponenziale delle spese militari (e, insieme con questo, dei finanziamenti per la guerra e tutto ciò che ruota intorno alla guerra) e la riduzione, cui abbiamo assistito per anni, delle spese sociali, per la sanità, per l’istruzione, per la ricerca, per la casa, per le pensioni, costituiscono uno dei più clamorosi scandali della nostra modernità, in particolare nelle società capitalistiche. Secondo il SIPRI, nel 2018 la spesa militare mondiale ha superato i 1.800 miliardi di dollari: significa il 2 % del PIL di tutto il mondo, o ancora circa 240 dollari a testa. Per l’Italia, la spesa militare supera abbondantemente i 20 miliardi di euro, e abbiamo anche il triste primato di essere tra i primi dieci esportatori di armi al mondo. Quanti asili nido, quanti posti in terapia intensiva, quanti accessi al sostegno alimentare riusciremmo a garantire con tutti questi soldi? È ovvio che è l’intero modello che deve essere ripensato: occorre passare, cioè, da un modo di produzione pesantemente energivoro, a fortissimo impatto sociale ed ecologico, in cui la ricerca è troppo spesso piegata alle esigenze del complesso militare-industriale e la logica di sicurezza, troppo spesso militare, finisce per penetrare anche in ambiti che con la logica militare non dovrebbero avere nulla a che fare, ad un altro modo di produzione, sostenibile sotto il profilo sociale e sotto l’aspetto eco-sistemico, avviando la riconversione delle produzioni militari e di quelle a maggiore impatto, inaugurando una strategia di difesa difensiva e, in prospettiva, di transarmo, e un rafforzamento della difesa civile, della difesa popolare nonviolenta, della cooperazione e della solidarietà internazionale.

 

Le Nazioni Unite, nell’emergenza da coronavirus, hanno proposto un “cessate il fuoco globale”.

Come possiamo agire per la pace nella stagione dell’emergenza?

 

A maggior ragione nella situazione di emergenza che stiamo attraversando, la pace rimane la grande domanda inevasa del nostro tempo. La guerra non è un destino, non è una fatalità, né tantomeno è inevitabile. Come scrive l’UNESCO nel preambolo dello statuto, siccome la guerra nasce nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che vanno costruite le difese della pace: questo significa sia lavorare per l’educazione, la sensibilizzazione, l’informazione e il giornalismo di pace, sia agire concretamente, nelle zone di conflitto e nei nostri territori, per prevenire la guerra, e costruire gli anticorpi della violenza. La pace richiede sempre una iniziativa attiva di “costruzione”: ricordiamo quanto dice Johan Galtung, o quello che tante volte ha ripetuto, qui in Italia, tra gli altri, Alberto L’Abate, che è necessario lottare per affermare la pace, sulla base dei presupposti della nonviolenza e della giustizia, e che la pace stessa deve essere «pace positiva», vale a dire «pace con giustizia». Agire per la pace nella stagione dell’emergenza significa quindi, tra le altre cose, costruire le condizioni della giustizia, a partire dalla giustizia sociale, proteggere la vita umana e tutelare i diritti umani, realizzare i presupposti per un diverso modello di sviluppo. È necessario dare seguito alla richiesta del Segretario Generale delle Nazioni Unite per un “cessate il fuoco” generale: lo dice lui stesso, perché «i conflitti armati imperversano nel mondo»; perché «al virus non interessano nazionalità, gruppi etnici, credo religiosi e fazioni»; e perché, in particolare, «sono sempre i più vulnerabili a pagare il prezzo più alto e a rischiare sofferenze e perdite devastanti a causa del virus».

 

Come possiamo da questa tragica esperienza trarre nuova energia per affrontare le grandi sfide del Terzo Millennio?

 

Penso che ci siano dei segnali positivi e che ci sia molto da fare per fare in modo che le idee che abbiamo fin qui scambiato possano “trovare gambe”: l’importanza della cooperazione e della solidarietà internazionale, ad esempio, di cui anche il nostro Paese ha beneficiato, grazie agli aiuti umanitari provenienti, ad esempio, dalla Cina e da Cuba; Cuba socialista, sotto embargo da decenni, continua ad avere un eccellente sistema sanitario ed aiuta i popoli ai quattro angoli del pianeta; l’importanza anche della lotta per la prevenzione dei conflitti armati e per la costruzione della pace positiva, che è un cimento tipico dei Corpi Civili di Pace, tenendo sempre insieme il contrasto alle crisi e la tutela dei diritti umani; un nuovo modello di sviluppo ed una nuova idea di società, una società umana, solidale, inclusiva. In una parola, una nuova idea eco-sistemica di società.

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Agenda ONU 2030 – Pace, giustizia e istituzioni solide

Agenda Onu 2030: gli obiettivi del terzo millennio

Pace, giustizia e istituzioni solide

L’Agenda Onu per conservare un mondo come luogo vivibile e cercare di migliorarlo

Agenda ONU 2030, il sedicesimo obiettivo è quello della paceSviluppare, ripensare e elaborare pratiche volte a sostenere un modello più sostenibile per nostra madre terra risulta attualmente sempre più necessario.

Un mezzo è stato dato: Agenda ONU 2030 che si sviluppa in 17 obiettivi fondamentali e che costituisce un punto di partenza affinché ognuno di noi si attivi a livello globale per una società più giusta, equa, sostenibile e fondamentalmente priva di guerre e di ingiustizie.

I primi quindici obiettivi di sviluppo contemplati da Agenda Onu 2030 sono tematici come gli oceani, la terra, l’acqua, le malattie, il lavoro, l’energia.

Gli ultimi due obiettivi, e soprattutto quello sulla pace, ci parlano anche di giustizia e istituzioni solide.

E non è un caso. Perché tutti gli obiettivi che ci impegnano per salvare il pianeta, non possono essere realizzati se non sussistono questi tre concetti chiave: pace, giustizia e istituzioni, tra di loro molto collegati.

I vari sottoobiettivi trattano di ridurre le forme di violenza, di eliminare l’abuso, lo sfruttamento, la tortura contro i bambini. Si parla di accesso alla giustizia per tutti. E quello che per noi è scontato non è scontato in molte altre parti del mondo. Per fare questo, occorrono istituzioni efficaci, istituzioni solide, che possono guidare un governo in un equilibrio di armonia e pace. Si parla di coinvolgere i paesi in via di sviluppo; si parla di rinforzare la cooperazione internazionale, di promuovere e far rispettare le leggi e la politica. Questo è il quadro in cui tutti gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile si devono muovere, a pena di non riuscire a realizzarsi e avvicinarsi.

L’obiettivo pace è promuovere società pacifiche e nonviolente per risolvere le povertà, l’origine delle migrazioni e delle guerre dove i futuri scenari di conflitto saranno per il dominio dell’acqua.

Il significato di pace, senza scadere nella retorica, lo declina saggiamente Norberto Bobbio, il quale sosteneva che la parola pace è sempre in una posizione ancillare rispetto al concetto di guerra. La parola pace è sempre in contrapposizione alla parola guerra. Quando parliamo di pace ci soffermiamo sempre molto sul suo contrario. Quindi l’etimologia di pace deriva dal verbo latino pacere e significa accordarsi, da cui pactum, accordo, patto. In questo obiettivo di Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile sussistono indizi che ci consentono di pensare che si può parlare di pace senza ricorrere alla guerra.

Il termine guerra non appare mai nella declaratoria dell’obiettivo Pace e nemmeno nei dieci sottoobiettivi. I due aggettivi che definiscono la società in pace non rinviano necessariamente alla guerra. I due aggettivi sono le società ‘inclusive’, le istituzioni inclusive che richiamano a società aperte e cooperanti. E l’altro aggettivo è ‘pacifico’ che non significa solo senza guerra, richiamando Norberto Bobbio.

Cosa significa tutto questo? Per chiarire occorre partire dal concetto di conflitto, che fin dall’antichità e da sempre è stato considerato un elemento ineliminabile nei rapporti umani. Il conflitto non sarebbe in contrapposizione alla pace. Il vero problema risiede nella risoluzione del conflitto che può essere violenta o pacifica. La risoluzione violenta: di cui l’espressione più alta e peggiore è la guerra.

Insomma la chiave per la costruzione di una società pacifica si risolverebbe nell’individuazione del mezzo con cui risolvere i conflitti e allora riflettere sulla pace partendo dalla pace, significa convincersi che si devono praticare soluzioni nonviolente dei conflitti. E qui cade il riferimento alla giustizia. Non una giustizia armata – anche la guerra è stata definita spesso una sorta di giustizia – bensì una giustizia trasparente, garantita a tutti, come recita l’obiettivo di Agenda Onu 2030, ossia ‘inclusiva’, cioè che utilizzi mezzi e procedimenti nonviolenti e tra questi il diritto è compreso. Bobbio non a caso parlava di pacifismo giuridico. Ma potrei anche richiamare gli arbitrati, le conciliazioni, le mediazioni e risoluzioni a livello internazionale: tutti strumenti pacifici e nonviolenti per risolvere i conflitti. Occorre essere consapevoli che nella soluzione dei conflitti, quasi mai il torto e la ragione sono tutti da una stessa parte o dall’altra. Dobbiamo sapere che esistono più soluzioni e che tra queste alcune tengono presenti e cercano di combinare le ragioni di entrambe le parti. E sono proprio queste che vanno praticate, per non lasciare sul terreno un vinto o un vincitore.

Fondamentale il contributo delle Nazioni Unite alla costituzione a livello mondiale del diritto alla pace e alla giustizia che dal dopoguerra ha visto ancora un susseguirsi di eventi bellici e sanguinosi.

Le Nazioni Unite, anche se troppo ostacolate da interessi economici di nazioni e potenze, sono comunque riuscite con molti limiti a realizzare grandi momenti di giustizia e di pace come il trattato ONU per il disarmo nucleare universale varato a palazzo di vetro a New York nel 2017 che ha portato per la prima volta l’umanità a munirsi di un mezzo giuridico che dichiari criminale il possesso di ordigni nucleari anche al fine della sola deterrenza.

Sviluppare questi punti e obiettivi per il Terzo Millennio può essere l’inizio di un grande riscatto e sussulto di dignità per l’umanità intera.

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